La sinistra storica e l’agenda politica dettata dal “relatisvismo” politico: perché queste europee segneranno il punto di svolta, in negativo e in positivo, del centrosinistra europeo, oggi ai margini delle decisioni che contano nell’Ue
Mentre ancora una volta le strade di Parigi bruciano, della baldanzosa rievocazione della grandeur di Napoleone primo e terzo rimane ormai solo uno sbiadito ricordo. Emmanuel Macron, il presidente della tanto evocata rinascita europeista, il salvatore (presunto) a cui gran parte del vecchio establishment si era aggrappato all’indomani del primo turno in cui i partiti tradizionali francesi erano stati travolti, è in crisi nera di consensi e di idee.
Ancora una volta l’abbraccio mortale della nomenklatura è stato fatale e per il centrosinistra europeo è di nuovo crisi nera: per la prima volta nella storia dell’Europa unitaria mancherà un capo di Stato o di governo come primo sponsor: se si esclude la Spagna – dove Pedro Sanchez governa però in minoranza in virtù di un automatismo costituzionale – nessuno tra i grandi Paesi d’Europa potrà vantare nelle prossime europee su un leader che governi. Macron, al quale erano rivolte le speranze del fronte antisovranista, appare oggi il più debole dei leader e a meno di due anni dalla sua trionfale vittoria anche chi – in Italia soprattutto – sognava un partito macroniano ha dovuto ricredersi.
Mentre accade tutto questo la sinistra italiana, a poco meno di un anno dalla sua più rovinosa sconfitta da cinquant’anni a questa parte, si ritroverà per eleggere il successore di Maurizio Martina (e di Matteo Renzi) alla guida del Pd: il nome che uscirà dal congresso sarà, sia che vinca Nicola Zingaretti, sia che vinca Maurizio Martina, un ex Ds. Segno tangibile che il bacino della ex Margherita da cui provenivano Renzi, Gentiloni (e Mattarella) ha ormai esaurito la propria leadership. Sarà, anche in assenza di un dibattito su questo tema, un congresso politico di non trascurabile rilevanza. In Europa, infatti, la via centrista del centrosinistra è in un tunnel senza uscita. Mentre in Germania l’Spd, il già più grande partito di tutta l’Europa, è alle prese con un probabile sorpasso del partito populista e xenofobo dell’AfD. L’unica sinistra che compete, è, ad oggi, quella euroscettica ed eretica di Corbyn e Tsipras mentre l’area che si riconosce fermamente attorno al Pse è ormai sempre più ai margini. Non solo non governa più ma, secondo tutti i sondaggi, perderà tra i 40 e i 50 seggi all’Europarlamento, sancendo così un declino senza precedenti.
Per questo, non solo il centrosinistra italiano ma quello di tutta l’Unione, da maggio in poi, sarà costretto ad una profonda rivisitazione che segnerà definitivamente la fine del socialismo democratico classico così come lo abbiamo sino ad oggi conosciuto. Eppure, nel dibattito precongressuale del Pd, ancora non se ne parla.
Che fare? L’onda sovranista (termine sdoganato anche dal Presidente del Consiglio, il quale ne ha rivendicato la propria appartenenza) che ha radici e declinazioni assai differenti, anche in caso di un relativo successo alle europee non sarà comunque in grado di fare fronte comune, basti pensare alle profonde differenze che permangono tra M5S e Lega e i cui effetti sono visibili, ogni giorno, sulle colonne dei nostri giornali. Molte delle battaglie storiche del centrosinistra sono oggi superate da nuovi quesiti. Se pensiamo che il primo governo Prodi cadde, per mano di Rifondazione comunista, sulle “35 ore” si comprende quanto certi dibattiti non abbiano più politicamente appartenenza e importanza: molti temi storicamente di sinistra, come le pensioni o il lavoro, sono oggi appannaggio della Lega mentre il mondo delle professioni e del terziario, prima ciecamente a fianco del centrodestra di matrice berlusconiana, è oggi senza un chiaro riferimento politico. Senza pensare all’anima profonda dei gilet gialli, una volta al fianco dei socialisti francesi e che oggi strizza l’occhio al Fronte nazionale della Le Pen. Le carte si sono rimescolate e la ricomposizione del mosaico delle tradizionali tematiche della sinistra non saranno più dettate in base all’agenda sindacale ma, piuttosto, sul flusso e sugli umori degli utenti dei social network, ora a favore di quello, ora a favore di quest’altro. Tutto in base alla contingenza temporale. Un relativismo politico di fronte al quale la sinistra d’oggi appare in seria difficoltà.
E il fallimentare biennio di Macron, travolto da scandaletti e chiacchiere, la dice lunga su quanto oggi anche una leadership forte e premiata a livello elettorale possa essere debole di fronte al corso degli eventi e all’umore del web. Il Movimento 5 stelle prima e la Lega poi dimostrano molto chiaramente come non sia più la piazza a determinare le scadenze politiche ma la rete. Se si sbaglia una campagna elettorale su internet si perde. Se si sbaglia la strategia di comunicazione, una volta al governo, si va in crisi: è ormai matematico. Quando poi, come nel caso del Presidente francese, la piazza virtuale si unisce a capillari e roboanti proteste su strada, ecco come una delle più grandi democrazie d’occidente si dimostri vulnerabile come burro al sole. Un po’ la sorte di tutte le democrazie liberaldemocratiche d’oggi, il cui concetto storico, filosofico e politico, è oggi – per queste stesse ragioni – in crisi.
Questo è lo scenario in cui centinaia di milioni di europei si apprestano, tra cinque lunghi mesi, a votare per l’Europa che sarà: assisteremo, forse, alla campagna elettorale più inedita e originale di sempre. I cui risultati saranno però determinanti per molti degli anni a seguire.