Il passo indietro da Capo politico dei pentastellati è il risultato dell’incompatibilità tra promesse del passato e compromessi del presente, ma non è escluso un suo ritorno. Il Movimento dovrà scegliere tra protesta e proposta e tra centrosinistra e ‘Terza via’. Si attendono reazioni da Beppe Grillo
Dopo settimane di voci di corridoio, ammissioni a microfoni spenti e pubbliche smentite, mercoledì 22 gennaio è arrivato il passo indietro di Luigi Di Maio da capo politico del Movimento 5 Stelle e capodelegazione dei pentastellati a Palazzo Chigi.
Al di là delle prevedibili rivendicazioni dei risultati raggiunti dall’M5S nell’anno e mezzo trascorso al governo (non è un dettaglio che l’attuale Ministro degli Esteri abbia equiparato le esperienze del Conte I e del Conte II) e dell’altrettanto immaginabile offensiva contro i franchi tiratori rei di aver sabotato le strategie del Movimento, alla radice della decisione di Di Maio non può non esserci stata la presa d’atto che non ci fossero più i margini per sostenere una linea politica che, dalla primavera del 2018 in poi, ha portato non poche difficoltà alla formazione grillina: calo vistoso nei sondaggi, dimezzamento dei voti alle Europee del 2019, passaggio da un contratto con la Lega a un’intesa con il Partito Democratico nell’arco di pochi giorni di fine estate, sconfitte in ogni elezione locale e sfarinamento dei Gruppi parlamentari tra abbandoni ed espulsioni.
Una presa d’atto, che si riscontra anche nella tempistica dell’annuncio dell’ormai ex Capo politico, tutt’altro che casuale: rimettere il mandato nella settimana delle Regionali in Emilia-Romagna e Calabria preclude infatti alle fazioni di deputati e senatori insofferenti nei confronti dei vertici del Movimento, per ragioni talvolta contradittorie tra loro, la possibilità di usare la probabile disfatta dell’M5S (accreditato di percentuali ben al di sotto del 10%) per avanzare richieste di cambiamento ben più drastiche del processo di rifondazione avviato con la votazione online del ‘Team del futuro’ e dei ‘Facilitatori regionali’, e destinato a concludersi con gli Stati generali del prossimo marzo.
Non è affatto da escludere, tuttavia, che la mossa di Luigi Di Maio sia in realtà finalizzata a un ritorno in altra veste, proprio dopo la kermesse (per i partiti tradizionali si sarebbe usata la parola congresso) che si terrà tra poco meno di due mesi per stabilire la nuova Carta dei valori della formazione. Il Ministro degli Esteri ha infatti annunciato che offrirà un contributo di rilievo durante gli Stati generali, e non ci sarebbe da stupirsi se approfittasse dell’assenza di figure (l’unico con uno standing e una presa sui militanti comparabile è Alessandro Di Battista, al momento all’estero) e proposte di rilievo alternative alle proprie per riproporsi come primus inter pares in un nuovo Direttorio, o nel ruolo di co-leader nel contesto di un tandem con una figura femminile (nelle ultime ore sta circolando con insistenza il nome della sindaca di Torino Chiara Appendino).
Quale che sia il successore del reggente Vito Crimi, il quale è atteso da un compito complesso in una fase in cui l’instabilità del Governo è tutt’altro che superata (con buona pace di Giuseppe Conte e Nicola Zingaretti, un’eventuale sconfitta di Stefano Bonaccini in Emilia-Romagna avrà ripercussioni sull’Esecutivo), o il futuro dello stesso Di Maio, la situazione di crisi in cui si trova il Movimento 5 Stelle è stata determinata dall’incompatibilità tra le promesse degli anni trascorsi all’opposizione e i compromessi che inevitabilmente hanno segnato (e continueranno a segnare) l’esperienza da partito con responsabilità governative. “Molto spesso non è un problema di cosa si può fare, ma di quanto tempo serva” sono state le parole usate nel suo discorso di (momentaneo?) addio dal Ministro degli Esteri, per evidenziare che i cambiamenti di cui si fa portatore l’M5S avranno bisogno dell’intera Legislatura, se non oltre, per vedere la luce; posizione senza dubbio ragionevole, ma che contraddice un’intera stagione trascorsa all’insegna di proclami su Istituzioni da aprire come scatolette di tonno e dossier da archiviare in un battito di ciglia, salvo essere smentiti dalla prova dei fatti, come accaduto per bandiere identitarie quali lo stop alla Tav Torino-Lione o la chiusura dello stabilimento Ilva di Taranto.
Nel complesso, a distanza di 10 anni dalla loro nascita, per i pentastellati non ci potrà essere una vera ripartenza se non supereranno una volta per tutte due ambiguità: da un lato la contraddizione tra la tentazione di tornare alle origini di forza di protesta libera di ogni peso nel dare voce alle rimostranze dei cittadini verso una classe politica di cui fanno ormai parte a pieno titolo e il desiderio di continuare a incidere sulla società dai piani più alti di quel ‘sistema’ per lunghi anni demonizzato e, dall’altro, l’incertezza sulla collocazione del Movimento nel nascente campo riformista alternativo al centrodestra a trazione leghista o nel mezzo dei due poli in via di ricomposizione, con l’ambizione di ricoprire in futuro la funzione di ago della bilancia (la cosiddetta Terza via, auspicata da Luigi Di Maio).
Sta nella risposta a queste due incognite di fondo la soluzione del rebus sulla libertà di manovra e, in prospettiva, sulla permanenza del Movimento 5 Stelle nello scacchiere politico italiano, ed è probabile che Beppe Grillo torni a farsi sentire, abbandonando con maggiore frequenza e più decisione le retrovie cui si è confinato dall’autunno 2017 (la sua promessa di “stare più vicino” all’ex Capo politico, arrivata lo scorso novembre, è alla fine rimasta lettera morta). Se nella visione del fondatore divenuto ‘Elevato’ l’M5S è destinato a biodegradarsi una volta che avrà esaurito la propria funzione, risulta incomprensibile che Grillo, finora rimasto silente sulla rinuncia di Di Maio, continui a tenersi in disparte mentre la sua creatura continua a logorarsi fino a rischiare il deperimento.