Quale delle due Agenzie Educative, famiglia e scuola, costituisce un rischio reale per la salute, l’integrità fisica e l’incolumità di un minore?
Stando unicamente al numero di procedimenti penali avviati, non v’è proprio partita: il 99% dei casi riguarda la famiglia, mentre un esiguo numero chiama in causa la scuola (poche centinaia di casi nel giro dell’ultimo decennio). Se poi andiamo a confrontare la gravità e l’efferatezza dei crimini compiuti in famiglia, bastano pochi nomi a ricondurci alla realtà dei fatti: Annamaria Franzoni, Veronica Panarello, Martina Patti, Alessia Pifferi etc, per un totale di 472 casi di genitori (60% le madri e 39% i padri e 1% patrigni) che hanno ucciso i loro figli negli ultimi vent’anni.
Vi sono anche i figli che uccidono i genitori come ci ricorda la cronaca di mezzo secolo: Doretta Graneris, Pietro Maso, Benno Neumair, Erika e Omar, Nadia Frigerio, Ferdinando Carretta etc. A scuola, invece, non abbiamo un solo episodio di “sangue” da parte degli insegnanti, mentre cominciano a fare capolino vicende allarmanti come quella dell’accoltellamento della docente di Abbiategrasso da parte di uno studente.
Per fortuna siamo ben lontani dalle stragi nelle scuole americane (a causa della libera circolazione delle armi) che sono sempre a opera degli studenti o ex-studenti e mai degli insegnanti. Già da queste poche righe è possibile pervenire all’assunto che la scuola è il posto in assoluto più sicuro per un minore, assai più che la sua stessa famiglia.
Procediamo ora col ragionamento. Ogni anno vengono accusate, e poi sottoposte a giudizio, alcune decine di maestre per Presunti Maltrattamenti a Scuola (PMS). Il fenomeno è aumentato di 14 volte in soli sei anni dal 2014 al 2019, e non ha nessun riscontro nei Paesi occidentali. Dunque, a essere cattive, sono esclusivamente le maestre italiane. Perché? Come ce lo spieghiamo? Si tratta forse di una malattia genetica endemica nel Belpaese? Sarà colpa delle riforme previdenziali che, abolendo le baby-pensioni, non hanno tenuto conto dell’usura psicofisica della professione facendo “sclerare” anzitempo e “uscire di testa” le insegnanti più fragili?
L’ipotesi è affascinante ma, uno studio epidemiologico retrospettivo pubblicato nel 2019, sembra escluderlo categoricamente nonostante l’età media delle maestre indagate fosse di 56,4 anni con una anzianità di servizio media che superava i trent’anni. E allora, come ci spieghiamo il fenomeno? Resta un’ultima spiegazione: i metodi d’indagine che l’Autorità Giudiziaria (AG) utilizza entrando in un ambito particolare come quello scolastico. Sono professionalmente adeguati, appropriati, tempestivi, adeguati, commisurati all’urgenza, economici? La risposta è univocamente negativa su tutta la linea. Vediamo il perché.
Gli inquirenti (per lo più carabinieri, ma anche poliziotti, finanzieri, vigili urbani e polizia postale) non possiedono la necessaria preparazione educativo-pedagogica, né conoscono la differenza e gli obblighi che passano tra l’ambiente “familiare” e quello “parafamiliare”. Più che legittimo pertanto chiedersi se l’analisi dell’attività professionale “specializzata” di coloro che insegnano, educano, scolarizzano, istruiscono, integrano, sostengono, interagiscono, comunicano, includono, assistono bambini piccoli, possa essere serenamente affidata a dei non-addetti-ai-lavori.
Nelle mani di questi inquirenti, le intercettazioni ad libitum nella scuola (addirittura 1.200 ore riporta Repubblica nel recente caso di Rivoli culminato con l’assoluzione di due maestre in appello) vengono manipolate attraverso:
- la decontestualizzazione;
- il taglia e cuci dei progressivi per riassumere unicamente gli episodi contestati in una sorta di trailer di un’interminabile intercettazione di centinaia di ore che nessun magistrato visionerà (sarebbe folle) mai per intero, finendo col contravvenire le indicazioni che la Cassazione ha chiaramente esplicitato (“In tema di maltrattamenti il giudice non è chiamato a valutare i singoli episodi in modo parcellizzato e avulso dal contesto, ma deve valutare se le condotte nel loro insieme realizzino un metodo educativo fondato sulla intimidazione e la violenza…” (Cass. Sez. 6 n. 8314 del 25.06.96);
- la selezione avversa delle clip (“talvolta teso alla ricerca della prova o finalizzato alla ricerca della sufficiente gravità indiziaria”, come dichiarò Gherardo Colombo – nell’intervista a Il Dubbio del 26.06.16);
- la trascrizione con drammatizzazione degli episodi (es. “…la maestra intimidiva l’alunno con l’indice alzato, dicendogli minacciosa: conto fino a tre!”).
Tutto quanto sopra, senza dimenticare che, mediamente, vengono contestate alle maestre unicamente lo 0,1-0,4% di tutte le intercettazioni, che – come detto – saranno le uniche immagini sottoposte ai giudici, andando così a escludere ben oltre il 99% dei filmati totali che non avranno alcun peso nel giudizio, anche se ritenuti professionalmente appropriati.
Tra i giudici vi è però chi recepisce appieno l’importanza di svolgere indagini consone ad un ambiente “parafamiliare” come quello scolastico, seguendo criteri prudenti, evidenti e accorti. Un giudice del Riesame di Quartu, in un caso di PMS del 2017, sembrò indicare delle regole logiche e puntuali (tra cui la contestualizzazione degli episodi contestati), che però spesso restano disattese: “I singoli episodi non possono essere “smembrati” per ricavare dall’esame di ciascuno di essi la sufficiente gravità indiziaria”… gli episodi acquistano una diversa valenza se avulsi dal contesto di un’intera giornata di lezione della durata di 5 ore in un contesto quotidiano e mensile… le condotte della maestra, lungi dall’integrare il ricorso a sistematiche pratiche di maltrattamento, possono invece ricondursi allo svolgimento dell’attività di docenza…l’esame integrale dei filmati induce altresì ad escludere il fumus del reato di abbandono di minori contestato alla maestra… Laddove il tono di voce della maestra risulta innegabilmente alterato, va considerata l’episodicità (pochissimi i file audiovideo incriminati rispetto ai quasi 1.000 prodotti)…
L’esame del materiale non consente di ritenere che la condotta della maestra integri la soglia del penalmente rilevante, connotandosi al più come espressione di discutibili metodi didattici che esauriscono la loro censurabilità in ambito disciplinare…”. Ma il disorientamento dei giudici in ambito educativo-pedagogico passa anche attraverso l’assenza della cosiddetta lista bianca dei metodi correttivi leciti, disponendo altresì della sola lista nera. (Sez. VI, 16 febbraio 1983, Mancuso, in Cass. pen., 1984, p. 508, n. 362; Sez. V, 9 maggio 1986, Giorgini, in Cass. pen. 1987, p. 1095, n. 855).
Ma se la Giustizia (e con essa si ricomprendono anche gli avvocati di parte) non conosce la scuola, i risultati di queste indagini (professionali) non possono che condurre a risultati disomogenei e contraddittori (si vedano le numerose sentenze in materia). Per dirla col giudice di Quartu, “la condotta della maestra non integra la soglia del penalmente rilevante, ma esaurisce eventualmente la propria censurabilità in ambito disciplinare”. Ed è proprio in questa affermazione che sta la soluzione: non si tratta di una questione penale, ma riguarda l’ambito disciplinare che è, per l’appunto, presidiato dal dirigente scolastico che, peraltro, possiede quelle competenze pedagogiche di cui gli inquirenti sono sprovvisti.
Ecco spiegato l’arcano dell’Italia come unico Paese che vede crescere e moltiplicare il fenomeno dei PMS (di 14 volte in sei anni): l’aumento drammatico è dovuto soprattutto ai metodi d’indagine particolarmente intrusivi (niente privacy), quindi facilmente manipolabili, infine gestiti da inquirenti non-addetti-ai-lavori. Questa la dinamica: i genitori denunciano le maestre alla A.G., e gli inquirenti piazzano le telecamere nascoste senza un limite di tempo prestabilito (ottenendo proroghe col solito pretesto di dover “cristallizzare il quadro indiziario”). Seguono indagini per svariati mesi (ma il pericolo per i bimbi non era grave e urgente? Evidentemente no!) e processi che durano interi lustri. In sintesi, il dirigente scolastico è cortocircuitato dalla AG e l’eventuale procedimento disciplinare precluso. In UK e negli altri Paesi occidentali, secondo specifici protocolli, l’AG rimanda allo schoolmaster (dirigente scolastico) i denuncianti (genitori), affinché trovino una soluzione/accordo in ambito scolastico.
Queste indagini professionali condotte su maestre specializzate e vincitrici di concorso (si veda in proposito l’art. 27 del CCNL comparto scuola con le competenze richieste per entrare in servizio), sono di fatto condotte da inquirentinon-addetti-ai-lavori che possiedono conoscenze educativo-pedagogiche esclusivamente basate sul loro vissuto personale.
Oggi è pertanto doveroso arginare il dilagante e debordante intervento dell’AG nella scuola con telecamere nascoste.Occorre restituire responsabilità e competenze al dirigente scolastico per garantire tempestività, sicurezza ed economicità. Bisogna impedire che il preside venga cortocircuitato da coloro (95% genitori e 5% colleghe) che vogliono sporgere denuncia, facendo invece in modo che il dirigente venga sempre attivato in prima battuta e l’AG solo in caso di fallito intervento del primo (come avviene ad esempio in UK).
Non tratto qui il grosso problema degli insegnanti di scuola dell’infanzia e primaria che sono finiti in questo tritacarne e hanno affrontato per tanti anni gogna mediatica, spese giudiziarie, risarcimenti, tentati suicidi, depressione, decessi per tumori da stress prolungato etc. Questo argomento merita un articolo a parte.
Desidero invece suggerire come affrontare e risolvere questo fenomeno di PMS che brucia inutilmente denaro pubblico e soprattutto vite umane. Si consideri a titolo di esempio il citato caso di Rivoli della settimana scorsa: 1.200 ore di intercettazioni, due gradi di processo, spese per giudici, avvocati, cancellieri, aule di tribunale etc, terminato con un’assoluzione. Chi paga ora le centinaia di migliaia di euro? Noi cittadini. E i circa 400 processi ancora oggi pendenti sugli insegnanti (di cui 15 sono suore addirittura accusate – falsamente – di aver bestemmiato)? Sempre noi.
Sorprende prima, e rammarica poi, il silenzio dei sindacati che, di fronte a questo attacco alla categoria professionale delle maestre, non si schierano risolutamente a difesa della loro salute, della loro professionalità, nonché della loro privacy violata da indagini con telecamere nascoste in barba all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori.
Al ministro di Grazia e Giustizia, che aveva promesso una stretta sulle intercettazioni inutili, ridondanti e dannose, chiediamo di restituire alla scuola quei problemi che trovano soluzione nell’ambito disciplinare con l’intervento tempestivo del dirigente scolastico. Quanto finora accaduto nella scuola, a differenza di ciò che avviene in famiglia, non richiede azioni o procedimenti penali nei confronti delle maestre e nemmeno del ricorso a metodi d’indagine che possono amplificare fatti snaturando la realtà attraverso facili artifici.
Al ministro dell’Istruzione e del Merito chiediamo attenzione per la risoluzione immediata di questo fenomeno dei PMS che si trascina, ingigantendosi, dal 2014. Restituire serenità alla categoria professionale delle maestre è un imperativo che non può essere rimandato e ulteriormente ignorato.
La sottoscrizione di un protocollo d’intesa tra i due dicasteri (sullo stile UK) che restituisca la gestione del fenomeno PMS all’ambito disciplinare, impedirà la cortocircuitazione del dirigente scolastico e ricondurrà l’Italia ad un comportamento in linea coi Paesi occidentali.
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