Fiat Chrysler Automobiles è oggi uno dei player più grandi ed influenti del panorama finanziario mondiale e vale sei volte in più rispetto al 2004. Un sogno reso possibile da un amministratore spregiudicato e visionario che ha dimostrato come si fa impresa e come sia possibile risanare una azienda anche durante gli anni di crisi
Era un freddo giorno del gennaio 2003 quando a Torino moriva Gianni Agnelli. Il quotidiano francese Liberation titolava perentoriamente a tutta pagina “Le roi d’Italie est mort”. Mai frase fu più indovinata per descrivere la portata storica della fine dell’era Agnelli-Fiat, l’emblema, il connubio stesso della rinascita italiana e del boom economico. La Fiat era ormai una cattedrale nel deserto del mercato, una celebre carcassa troppo ingombrante per fallire e per rinascere. Due anni dopo, quando anche Umberto Agnelli lasciava questo mondo, la luce in fondo al tunnel per il Lingotto era ancora più lontana.
Iniziava in quei giorni foschi il lavoro di Sergio Marchionne, un semisconosciuto manager italo canadese, un profilo totalmente avulso da quella borghesia nobile col doppio o triplo cognome che aveva governato con la Fiat i destini dell’Italia intera. Ritenuto dai più un commissario liquidatore, tra la diffidenza generale veniva chiamato a raccogliere il testimone del Roi d’Italie e di suo augusto fratello mentre tutto il mondo assisteva con l’orologio in mano, aspettando l’epilogo di quella gloriosa azienda indebitata fino al collo, senza nuovi modelli e sull’orlo di essere ceduta forzatamente alla General Motors. Era questione di poco, dicevano, dicevamo. Per la prima volta dai tempi delle occupazioni delle fabbriche e dalla marcia dei colletti bianchi la Fiat tornava alla ribalta per la triste cronaca. Ma non avevano, non avevamo, fatto i conti con quel Marchionne, il manager abruzzese venuto dal Canada. Ci mise poco. Non senza una certa spavalderia da pokerista tra polemiche, strappi, lacrime e sangue cominciò a parlare di orgoglio, di riscossa, di rivoluzione, di internazionalizzazione. Di rinascita. Ma nessuno, ancora, ci credeva.
Fu per prima la General Motors a dover fare i conti con l’unico vero uomo d’acciaio che l’Italia abbia visto da decenni. Erano convinti di poter mangiarsi tutto in un sol boccone. Marchionne, dopo aver girato mezzo mondo in modo matto e disperato arrivò in America, si sedette e convinse gli americani a sborsare quasi due miliardi per rompere il patto che prevedeva l’acquisto obbligatorio del Lingotto, visto che comprarsi la Fiat (e i debiti) gli sarebbe costato di più. Ce la fece. Marchionne con quel tesoretto riuscì in poco tempo a risanare il gruppo, non senza un braccio di ferro lungo anni con l’ala più dura dei sindacati e con alcuni settori di una politica e di una industria che non lo ha mai del tutto capito. Quattro anni dopo, poi, avvenne l’impensabile. Quando la grande crisi colpì i giganti del settore automobilistico americano la “piccola” Fiat, reduce dal sensazionalistico ritorno della nuova 500, si fece avanti e andò da Obama per dirgli che lui, a capo di quell’azienda ancora troppo piccola agli occhi dei più, avrebbe salvato la Chrysler, l’auto americana per eccellenza. Una mossa da kamikaze quella di investire in tempi di crisi, proprio quando tutti scappano. Ma poco dopo la Chrysler era già tra le sue mani: si partiva col 20% per poi arrivare, in caso di successo, al controllo maggioritario. Così avvenne. Quel manager col maglionicino stava salvando la Fiat e scalando il K2 dell’economia, l’America. E chi aveva tirato fuori l’orologio cominciò a temere che le lancette si fossero rotte.
Il resto, è cronaca. Fiat Chrysler Automobiles è oggi uno dei player più grandi ed influenti del panorama finanziario mondiale e a Torino l’aria di quel plumbeo gennaio del 2003, di quel funerale reale, è ormai un lontano ricordo. Un sogno reso possibile da un amministratore spregiudicato e visionario che ha dimostrato come si fa impresa e come sia possibile risanare una azienda anche durante gli anni di crisi. Una sfida da vincere contro governi nazionali e internazionali, contro la burocrazia e il monopolio. Contro dei competitors più ricchi e forti, contro Confindustria, dalla quale uscì polemicamente, contro la Fiom che ingaggiò, contro di lui più che contro la Fiat, una delle battaglie più polemiche che si ricordi. Sarà la storia a giudicare.
È questa l’eredità di Marchionne, di un uomo chiamato a prendere la guida di un rottame in perdita e restituirlo indietro con un valore di sei volte tanto. L’Italia sotto il sole più caldo dell’anno se n’è improvvisamente accorta. Mentre a Torino, quattordici anni dopo, è finita l’epoca di un altro Re.