Aveva ragione Matteo Renzi. Praticamente su tutto. Ha avuto ragione sull’elezione al quarto scrutinio, sul fatto che il PD avrebbe rimediato alla figuraccia del 2013, che il nome proposto ai grandi elettori sarebbe stato il collante del suo partito (almeno in questa occasione, più avanti chissà) e non avrebbe lasciato alibi alla minoranza interna (che infatti non ne ha cercati), che il Quirinale non era al centro del Patto del Nazareno. Quest’ultimo è forse il punto più importante, quello sul quale è utile soffermarsi.
Ovviamente, c’è chi sostiene che quello di Renzi sul Quirinale sia stato uno strappo del Patto del Nazareno, ma il premier aveva sempre negato pubblicamente che con Berlusconi ci fosse allineamento anche sulla successione a Napolitano. Sono stati smentiti in un sol colpo mesi e mesi nei quali la minoranza interna al PD e tutte le opposizioni – dal M5S a SEL – avevano messo sotto accusa (i grillini avevano anche presentato un esposto in procura contro il patto..) il dialogo sulle riforme tra il Presidente del Consiglio Renzi e il leader di Forza Italia Berlusconi inaugurato proprio nella sede del PD, al Largo del Nazareno a Roma. Da Civati a Bersani, da Fassina a Vendola, passando per Grillo e Salvini, tutti (compresi anche alcuni noti esponenti della stessa FI) avevano immaginato che nel perimetro del suddetto Patto ci fosse, oltre alla legge elettorale e alla riforma costituzionale, anche un sostanziale accordo sull’affaire elezione del Presidente della Repubblica. Gli oppositori del Nazareno avevano lasciato intendere come il vero pericolo fosse un mercanteggiamento tra Renzi e Berlusconi: da una parte Renzi che intascava i primi OK sulle riforme grazie ai voti decisivi di FI e dall’altra Berlusconi che si assicurava l’elezione al Quirinale di una personalità a lui non ostile (Giuliano Amato su tutti) che gli offrisse garanzie (sostanzialmente, la prospettiva della grazia).
Ebbene, tutta questa dietrologia – comprensiva di tutte le contropartite ipotizzate – sembra essere stata sconfessata dall’elezione di un giudice della Corte Costituzionale al Colle, il siciliano Sergio Mattarella. Questo non implica che Mattarella sia automaticamente persona ostile a Berlusconi: anzi, nei mesi scorsi, in ottica Quirinale, il leader di FI aveva sottolineato ai suoi più fidati collaboratori la moderazione del giudice palermitano. Tuttavia, la spregiudicatezza con la quale è stata giocata la partita da Renzi e il successivo esito sono stati spiazzanti per Berlusconi, uno shock, e sono la traccia evidente di come non ci sia stata contrattazione tra i due sul nominativo. La partita del Quirinale ha messo in luce l’attuale subalternità del leader di FI, la sua incapacità di stanare le reali intenzioni di Renzi. È stato battuto su un terreno sul quale negli scorsi venti anni aveva dimostrato di essere il più bravo: la manovra tattica, la capacità di saper leggere prima degli altri gli scenari possibili e di giocare d’anticipo. Questa volta ha subito tutto, dall’inizio alle fine.
E non solo. L’elezione di Mattarella ha evidenziato le numerose fratture interne a Forza Italia, ha dato la sensazione di un partito ormai mero contenitore senza contenuto, un partito (e un leader) tanto dentro ai giochi (le riforme) quanto fuori dai giochi (con pochissima capacità di contrattazione, un ruolo di semplice ratificatore di decisioni altrui). Lo showdown tra Berlusconi e i suoi competitor interni (su tutti, Raffaele Fitto) è iniziato da tempo, ma adesso potrebbe subire un’accelerazione.
Restando nel centrodestra, anche il partito di Angelino Alfano non ha brillato per coerenza e coesione. Il Ministro dell’Interno, preoccupato da un lato dalla necessità di riallacciare il dialogo con Berlusconi al fine di sondare il terreno in vista dell’inevitabile futura alleanza elettorale (pena l’irrilevanza) e dall’altro dall’esigenza di non stressare troppo i rapporti con il PD partner di Governo, dopo aver optato nelle prime tre votazioni per la scheda bianca (in scia a FI), poco prima del quarto e decisivo scrutinio ha annunciato la scelta di votare per Mattarella. NCD ha criticato il metodo usato da Renzi (il quale aveva rimarcato come Mattarella fosse il candidato unico e che non ci fossero nomi alternativi), ma ha apprezzato l’autorevolezza della persona indicata. Visto da fuori è sembrato il tipico atteggiamento di chi vuole dare un colpo alla botte e un altro al cerchio, per non scontentare nessuno. Ma qualche deluso in NCD c’è stato, così prima Sacconi poi Saltamartini si sono dimessi dalle rispettive cariche interne. NCD ha dato la sensazione di essere la ruota di scorta di Renzi sul Governo, tanto quando FI lo è stato (e lo sarà?) sulle riforme.
Capitolo franchi tiratori. Se nel 2013 era stato il PD a spaccarsi sui 101 che affossarono la candidatura di Prodi, adesso la caccia ai franchi tiratori riguarda il centrodestra. Mattarella è stato eletto con 665 voti mentre i grandi elettori dei partiti che avevano annunciato il loro sostegno erano 629, ci sono quindi 36 voti dei quali non si conosce la provenienza. Potrebbero essere almeno 30 i franchi tiratori di FI che avrebbero votato Mattarella contravvenendo all’ordine di scuderia (i grandi elettori di FI erano 142 e le schede bianche sono state 105), mentre qualcuno di NCD avrebbe depositato nell’urna la scheda bianca.
L’elezione di Mattarella, per le modalità con le quali è arrivata, lascia dietro di sé una lunga serie di feriti e di disorientati. In primis, come detto, FI di Berlusconi, poi NCD. Ma, soprattutto, la partita del Quirinale ha avuto l’effetto di rendere plasticamente evidente quanto sia diventato marginale e ininfluente il MoVimento di Grillo. Orientato a produrre una spaccatura nel PD utilizzando la candidatura di Prodi, ha sacrificato questo obiettivo politico sull’altare del voto on line, perdendo l’ennesima grande occasione per diventare ago della bilancia o quantomeno per rimarcare le eterogenee idee presenti all’interno degli altri partiti. La vittoria – tra gli iscritti al blog del comico genovese – e la conseguente candidatura di Imposimato hanno disinnescato qualsivoglia tentativo di inserire all’interno del PD un cuneo capace di produrre una solco profondo e magari incolmabile tra la cerchia renziana e la minoranza: il PD sarebbe stato messo davanti alle proprie contraddizioni, invece la scelta di Imposimato ha spianato la strada alla strategia di Renzi, vero deus ex machina dell’attuale panorama politico italiano. Con la candidatura di Imposimato, portata avanti incomprensibilmente per tutti e quattro gli scrutini, il M5S ha preferito limitarsi a sventolare la bandiera, piuttosto che piantarla nel terreno del PD.
Renzi ha invece giocato una partita tatticamente perfetta, almeno se si analizzano gli obiettivi raggiunti e quelli prevedibilmente raggiungibili nelle prossime settimane. Ha insistito affinché il Senato approvasse il cosiddetto Italicum (la legge elettorale valevole per l’elezione dei membri della Camera) prima dell’elezione del Presidente della Repubblica: ha ottenuto il voto sull’Italicum due giorni prima che si riunisse il Parlamento in seduta comune. Il disegno di legge che contiene le norme dell’Italicum passa ora alla Camera dove la maggioranza a guida PD ha i numeri per l’approvazione definitiva senza la necessità del “soccorso” di FI. Il successo della mossa tattica assume proporzioni più grandi se si osserva come l’Italicum è passato in Senato grazie i voti di Forza Italia, cioè di un partito che al momento non ha nessuna possibilità di vincere con quella legge elettorale. Al momento FI è quasi sicuramente fuori dai futuri giochi elettorali e il Patto del Nazareno (o quel che ne resta) è l’unica chance di Berlusconi di riuscire a rimanere vicino al centro della vita costituzionale e istituzionale italiana, con una qualche possibilità (o speranza) di essere una variabile dipendente all’interno del teorema renziano.
Aveva ragione Matteo Renzi. Senza esprimere giudizi sulle politiche messe in campo dal suo Governo, bisogna riconoscere che finora non ha sbagliato un colpo. Pochi si erano resi conto di quanto Renzi fosse un cavallo politico di razza. Un po’ come Berlusconi nel 1994: sottovalutato da tutti, da outsider destinato a rapida scomparsa dalle scene romane è riuscito rapidamente a diventare il perno centrale della vita politica italiana per quasi venti anni. Renzi sta percorrendo esattamente lo stesso tragitto, ovviamente da punti di partenza diametralmente opposti (Renzi è un politico di professione, Berlusconi è un imprenditore di professione) e con esiti imprevedibili.
L’elezione di Mattarella (destinata a rimanere nella storia anche perché, per la prima volta dal 1948, tra i grandi elettori non c’era nessuno dei leader dei quattro maggiori partiti) sconfessa anche chi sosteneva che il Presidente del Consiglio avrebbe fatto di tutto per eleggere un “passacarte”, una personalità di basso profilo, a lui “fedele” e che non gli facesse ombra. Sergio Mattarella potrà anche non fare ombra a Renzi – per quanto concerne l’esposizione internazionale e la presenza mediatica sarà sicuramente così – ma, al netto del comune trascorso nella Margherita, ha una statura politica e giuridica, oltre che una sua storia personale, tali da costituire una solida garanzia circa il fatto che saprà essere un Capo dello Stato serio, terzo e imparziale. Le premesse sono buone, per un giudizio sul merito è necessario attendere almeno sette anni.