La presidenza di Donald Trump affrontava il suo primo vero esame elettorale
di Mara Carro
Martedì 6 novembre gli Stati Uniti sono andati al voto per eleggere 35 dei 100 membri del Senato, i 435 membri della Camera e 36 dei 50 governatori di altrettanti Stati Usa, dalla Florida all’Alaska
Gli elettori sono stati chiamati alle urne anche per rinnovare le assemblee dei singoli stati e migliaia di amministrazioni locali, compresi sindaci di molte città e a esprimersi su 155 referendum sui temi più vari, dall’aborto alla liberalizzazione della marijuana, dall’esposizione dei dieci comandamenti nei luoghi pubblici alla fine all’alternanza fra ora legale e solare.
A conferma del grande interesse suscitato da queste elezioni gli oltre 5 miliardi di dollari spesi per la campagna elettorale e i 36 milioni di voti depositati il 5 novembre negli stati che permettevano il voto anticipato o per delega.
L’obiettivo dei Democratici era strappare almeno la Camera dei Rappresentati ai Repubblicani. Prima di queste elezioni la Camera era controllata dai Repubblicani con 235 deputati su 435. I risultati hanno confermato una tendenza abbastanza usuale nelle elezioni di metà mandato, che solitamente vedono imporsi il partito all’opposizione, e consegnato agli elettori un Congresso diviso per la vittoria dei Democratici alla Camera dei Rappresentanti e il rafforzamento della maggioranza dei Repubblicani al Senato. Per i 36 posti da governatore, i democratici hanno battuto i repubblicani nel Michigan (uno stato vinto da Trump nel 2016), Illinois , Kansas e New Mexico. I repubblicani, tuttavia, hanno resistito in Ohio e in Florida.
Tra le competizioni più seguite quella per un seggio del Senato in Texas fra Ted Cruz e Beto O’Rourke, “astro nascente” dei Democratici visto come un possibile candidato per il 2020, e il doppio duello in Florida, sia per il Senato che per il governatorato, con il democratico Andrew Gillum che ha perso la sua occasione per diventare il primo governatore afroamericano della Florida.
Gli ultimi giorni di campagna elettorale sono stati frenetici per entrambi i partiti e caratterizzati da un continuo botta e risposta a distanza tra il presidente Donald Trump, che ha preso la testa della campagna repubblicana, e l’ex presidente Barack Obama, forse l’unico vero leader democratico, in attesa di candidati credibili per il 2020.
Secondo l’ultimo sondaggio di ABC News / Washington Post, i principali problemi che hanno spinto gli elettori alle urne quest’anno sono stati l’assistenza sanitaria e l’immigrazione. I democratici hanno fatto della politica identitaria, dei diritti e dell’assistenza sanitaria una parte fondamentale della loro piattaforma mentre Trump, pur evidenziando gli eccellenti risultati registrati dall’economia americana, per i quali rivendica la piena ed esclusiva paternità, ha aumentato significativamente la sua retorica sull’immigrazione, usando la carovana dei migranti partiti dall’America centrale per raggiungere gli Stati Uniti per mobilitare i suoi sostenitori.
Dal punto di vista politico, le prime elezioni nazionali della presidenza di Donald Trump sono sicuramente state un giudizio sull’operato del presidente e sul partito al potere e hanno iniziato a delineare il possibile quadro di quello che saranno i due anni verso le nuove elezioni presidenziali del novembre 2020. Trump non aveva bisogno di vincere le elezioni, ma di evitare la disfatta. I due anni trascorsi dall’elezione del 2016 confermano un Grand Old Party completamente egemonizzato dal presidente in carica che lo ha scalato, lo ha plasmato a propria immagine e somiglianza e ora lo tiene in pugno, sebbene sarà in parte chiamato a rispondere di questa sconfitta.
Diverso il discorso per i democratici. La tanto sperata “onda blu” non si è materializzata del tutto, nonostante la riconquista della Camera. I democratici hanno apertamente scommesso su un plebiscito anti-Trump che, nei fatti, non c’è stato. Il partito è apparso evidentemente privo di una strategia elettorale univoca, di una leadership chiara e capace di offrire un’agenda alternativa a quella del presidente in carica e, soprattutto, abitato da due anime, due visioni inconciliabili, quella più tradizionale, riconducibile a politici come Nancy Pelosi, e quella più “socialdemocratica” dei nuovi candidati come Alexandria Ocasio-Cortez, la più giovane donna mai eletta al Congresso, che guardano a Bernie Sanders. Archiviate queste elezioni, si apre per i dem la vera sfida per la leadership in vista del 2020.
Dal punto di vista degli equilibri di Camera e Senato, questo scenario complicherà gli ultimi due anni del mandato di Donald Trump, che finora ha potuto contare sul controllo totale delle leve del potere federale. Più difficilmente passeranno provvedimenti proposti dalla Casa Bianca che verrà effettivamente sottoposta a sorveglianza da una Camera determinata a esercitare pienamente il proprio potere di controllo. Difficilmente ci saranno ulteriori tagli di tasse per i redditi più alti e sarà più difficile scardinare alcuni provvedimenti della precedente amministrazione Obama. Tutto questo può ancora giocare a vantaggio di Trump per le elezioni presidenziali del 2020, con i dem a fungere da capro espiatorio da incolpare per non aver mantenuto tutte le promesse elettorali. Si tornerà a parlare della possibilità di impeachment ma con il Senato in mano repubblicana, le probabilità di licenziamento di Donald Trump sono praticamente nulle.
Questo voto segna poi un importante passaggio nella presenza femminile e delle minoranze al Congresso. Sono infatti state elette oltre 110 parlamentari donne. Tra queste, Alexandria Ocasio-Cortez, la più giovane donna mai eletta al Congresso, Rashida Tlaib e Ilhan Omar, le prime due donne musulmane elette alla Camera nella storia degli Stati Uniti, la democratica Sharice Davids, la prima donna nativo-americana eletta al Congresso. Era la prima volta nella storia degli Stati Uniti che la maggioranza dei candidati di un grande partito non era composta da uomini bianchi ma da donne