Dati e informazioni, detenute nelle mani pubbliche che, se messe a fattor comune, possono contribuire a migliorare i servizi ai cittadini. Per comprendere lo stato del livello di innovazione delle P.A. LabParlamento ha incontrato l’ing. Andrea Trenta, vicepresidente della commissione tecnica di Ingegneria del software e componente delle commissioni Tecnologie abilitanti per Industry 4.0 e Intelligenza Artificiale di UNI e collaboratore in enti di standardizzazione internazionali e università. Con lui abbiamo parlato di “open data” e delle potenzialità di tale strumento.
Ing. Trenta, perché oggi il concetto di “open data” riveste un ruolo così rilevante nel mondo della P.A.?
Qualche anno fa, dopo un ampio dibattito, furono introdotti gli open data all’interno di diverse pubbliche amministrazioni; i dati “aperti” – concetto quasi sparito nella comune percezione che il problema centrale sia solo quello della tutela delle informazioni personali e della privacy – sono uno strumento importante per l’esercizio della democrazia perché rendono possibile, per tutti, beneficiare di maggiore trasparenza nell’azione della P.A., una sorta di controllo pubblico dell’azione pubblica.
È possibile tracciare un primo bilancio degli effetti dell’uso degli open data nella P.A.?
Dall’introduzione dei dati aperti nella P.A. sono nate tante positive iniziative. Ad esempio, grazie all’analisi della parola “suturatrici” negli open data dei contratti pubblici, l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) tra i molti interventi propri e della Guardia di Finanza, nel 2020 ha scoperto che l’Azienda Sanitaria della Provincia Autonoma di Bolzano effettuò un illecito frazionamento del valore dei contratti di affidamento diretto verso gli stessi fornitori per l’acquisto di “suturatrici”, fatto per eludere le procedure di gara che sarebbero obbligatoriamente scattate sommando il valore dei singoli contratti.
Come gli open data possono aiutare il lavoro delle pubbliche amministrazioni?
Di esempi ce ne sono tanti. Una proposta, che sembra tra l’altro in linea con gli intenti della nuova amministrazione del comune di Roma di un maggior coinvolgimento dei singoli municipi, è quella di disporre dei dati della raccolta dei rifiuti quanto più possibile “granulari”, cioè ripartiti per il territorio più piccolo possibile (es. comune-municipio-singola strada), in modo da controllare oltre che il livello di servizio anche il livello di differenziazione e altri parametri; inoltre i dati porterebbero a stimare precisamente il numero di cassonetti o passaggi di raccolta necessari. Si darebbe poi efficienza a tutto il processo, risparmiando tempo e riducendone i costi: potrebbero aiutare i “cassonetti intelligenti” o semplicemente una piattaforma non più complessa di quella usata dalle assicurazioni RC auto per le polizze “satellitari”, che registri i percorsi di tutti i mezzi di raccolta nella città stimandone il peso per avere costantemente sotto controllo la quantità dei rifiuti raccolti nelle varie zone della città. A partire da questa rilevazione, sarebbe poi molto facile esporre il dato come “open” per dare consapevolezza ai cittadini dei risultati e delle risorse impiegate per raggiungerli.
Quella che sembra una proposta rivoluzionaria si scontra, però, con la realtà…
Lo stato attuale, infatti, è molto lontano dalla proposta: da una semplice indagine su Internet risulta che ad esempio per Milano sono disponibili alcuni dati della raccolta rifiuti ma solo per livelli di aggregazione comunali e fino al 2020, mentre il Comune di Roma è fermo al 2018 sempre per percentuali a livello comunale di tipologia di materiale raccolto o numero di cassonetti installati. Questo anche perché non esiste un obbligo di pubblicazione dei dati, a meno che non sia richiesto da un atto normativo specifico come per i dati dei contratti pubblici; anche la stessa Agenzia per l’Italia Digitale (AGID) ha fornito nel Piano Triennale per l’Informatica nella P.A. delle linee guida tecniche e indirizzi non obbligatori; un percorso è stato individuato da alcune amministrazioni locali, come ad es. la regione Umbria e il comune di Genova, che hanno pubblicato proprie direttive sul tema e che, tra l’altro, hanno individuato le proprie necessità organizzative attraverso figure professionali preposte alla raccolta e pubblicazione di molti open data. Concludendo, in assenza di una normativa nazionale od europea più “cogente”, la sensazione è che le amministrazioni locali, che sono spesso quelle che originano il dato, (sanità, ambiente, ecc.), possano fare molto per aprire i dati alla cittadinanza.