Quello di una corretta comunicazione giornalistica. Il “nodo” dei social. Intanto, si avvicina l’ok definitivo alla “Legge Zampa”
50 milioni di esseri umani in fuga da guerre e carestie, pari a circa la metà dei rifugiati a livello globale; un numero che è salito del 75% negli ultimi 5 anni. Sono i minori non accompagnati, secondo gli ultimi dati dell’Unicef. Arrivano da Eritrea, Egitto, Gambia, Nigeria, Guinea, Somalia, Costa d’Avorio… E purtroppo, a livello internazionale, si registra per lo più la mancanza di un sistema strutturato e assieme lungimirante di accoglienza e previsione dei passi successivi.
Anche nel nostro Paese i dati sono in forte aumento. Tra il 2014 e il 2015, il numero dei minori sbarcati richiedenti asilo è passato da circa 23.000 a oltre 96.000. Di questi, quelli non accompagnati lo scorso anno sono arrivati a 26.000 contro 12.000 solo l’anno prima. Una situazione oggetto di crescente ma non sufficiente attenzione. Anche se una novità importante, sotto il profilo legislativo, sembra finalmente in arrivo.
Si tratta della cosiddetta “Legge Zampa” (DdL recante “Disposizioni in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati“), dal nome della prima firmataria, l’on. Sandra Zampa (Pd), provvedimento trasversale recentemente rinviato a Montecitorio per la terza, e probabilmente definitiva, lettura. Importante, perché interviene su una cornice legislativa incompleta facendo dell’Italia addirittura un esempio per il resto d’Europa. Al momento, infatti la nostra legislazione al riguardo si affida al Testo Unico sull’immigrazione del 1998, al D. Lgs. 142/2015 sull’accoglienza dei richiedenti asilo e alle norme del Codice Civile. Ma non esiste un vero e proprio codice per i diritti dei minori. Come un testo siffatto non esiste, appunto, in Europa per cui ci si rifà alle norme della Convenzione Onu in materia.
Tra i punti toccati dalla nuova legislazione: l’accertamento dell’età dei minori, il problema delle “tratte”, la nomina di un tutore, la prima accoglienza, l’eventuale respingimento ed il ritorno, l’acquisizione della cittadinanza, il finanziamento dell’accoglienza.
Il tema è stato al centro del dibattito su “Comunicare l’immigrazione: il mondo dei minori migranti”, che si è svolto mercoledì 8 marzo a Roma, organizzato, nel quadro della formazione professionale giornalistica, dall’Ufficio Comunicazione Scalabrini e dalla Fondazione Centro Studi Emigrazione. Al centro, oltre a quelli legislativi, anche i problemi socio-economici del fenomeno e naturalmente quelli, assai delicati per non dire decisivi, della comunicazione in genere sull’immigrazione.
Sotto questo profilo acquista particolare rilievo la cosiddetta “Carta di Roma” messa a punto con il supporto di una ventina di associazioni umanitarie, nel 2008, sull’onda emotiva della strage di Erba (ricordate i personaggi di Olindo e Rosa?) che mise alla gogna sulla stampa per alcuni giorni un tunisino, risultato poi del tutto innocente perché addirittura all’estero quando si erano svolti i fatti. Vicenda che rivelò una totale mancanza di controllo della notizia. Insomma, un errore grossolano che poteva essere facilmente evitato.
In realtà l’iniziativa presa dalla Fnsi e dall’Ordine dei Giornalisti si annacquò abbastanza rapidamente sotto il profilo delle eventuali sanzioni da comminare che, nella sostanza, rimandano a quelle generali della deontologia professionale, ma rimane un punto di riferimento importante, per esempio, in merito a una delle tante questioni dibattute: l’utilizzo del termine “clandestino”.
Al centro, sovente, dello scontro politico, la parola – è stato sottolineato – è giuridicamente scorretta al di là del giudizio sulla vicenda di cui si parla, in quanto spesso vi si ricorre in maniera discriminatoria: clandestino è infatti “chi si nasconde e dunque genera l’immagine di clandestinità”. I richiedenti godono invece del “diritto d’asilo” sancito dalla Costituzione e fino a prova contraria non sono dunque clandestini. Vero è che sul totale la maggior parte, circa il 90%, non ottiene alla fine tale diritto ma va considerato che, di questa percentuale, sono poi numerosi quanti ottengono comunque una forma di protezione oppure fanno ricorso e restano in attesa. Essendo tuttavia labile il confine con l’utilizzo della libera manifestazione del pensiero e non poche, di conseguenze, le cause in corso, alla fine sta al giornalista e al suo grado di deontologia decidere come comportarsi nel caso singolo.
Dalla carta stampata ai social, che sono i nuovi contenitori dell’informazione anche in tema di immigrazione, per lo più e anche di più fuori da controlli di sorta. Sulla questione è attiva, tra le altre problematiche di cui si occupa, la Commissione parlamentare contro l’intolleranza voluta dalla presidente della Camera Laura Boldrini, e composta da un deputato per ogni gruppo politico oltre a rappresentanti di associazioni umanitarie.
Il “nodo” è quello della possibilità o meno di reazione in caso di diffamazione (commento razzista), per esempio su Facebook. Quest’ultimo, bisogna dire, si è attivato creando un’equipe di controllo di un centinaio di persone che elimina, se del caso, l’articolo diffamatorio. Tuttavia, la disponibilità dei social a collaborare non va oltre un certo grado soprattutto quando entra in gioco la possibilità di perdere sovranità per ottenere un regolamento giuridico a livello internazionale. E finora tutto è rimasto bloccato.