Con una sentenza che sta facendo molto discutere, il Tribunale di Caltanissetta traccia una linea inequivocabile sulla responsabilità genitoriale in ordine ai nuovi strumenti di comunicazione telematica. Ma forse prima bisognerebbe chiedersi chi educa gli educatori
Chi deve educare (e vigilare) i giovanissimi persi nei meandri della tecnologia? A rispondere a tale interrogativo ci hanno pensato i giudici del Tribunale di Caltanissetta che, con una Sentenza del 8 ottobre 2019, hanno messo nero su bianco le responsabilità delle famiglie nei confronti della preparazione digitale dei propri figli.
Sul punto i giudici nisseni sono stati tranchant: gli obblighi inerenti la responsabilità genitoriale impongono non solo il dovere di impartire al minore una adeguata educazione all’utilizzo dei mezzi di comunicazione, ma anche di compiere un’attività vigilanza sul minore per quanto concerne il suddetto utilizzo, così da evitare che i giovanissimi cagionino danni a terzi o a sé stessi mediante gli strumenti di comunicazione telematica.
Il caso sottoposto ai magistrati siciliani muove le mosse dall’azione di un ragazzo che, utilizzando Whatsapp, minacciava una sua coetanea con l’invio di messaggi continui, tanto da generarle uno stato di ansia e di preoccupazione e indurla, di conseguenza, a modificare le sue abitudini di vita. Una tempesta di messaggi tali da spingere la giovane a temere per la propria incolumità e quella dei propri cari. Da qui la denuncia, il processo e la sentenza.
Non sono bastati i dispiaceri e i pentimenti dei familiari del giovane imputato: i magistrati del capoluogo nisseno hanno affermato senza nessuna esitazione che il dovere di vigilanza dei genitori deve sostanziarsi in una limitazione sia quantitativa che qualitativa dell’accesso alle nuove tecnologie, al fine di evitare che questi potenti mezzi relazionali possano essere utilizzati in modo non adeguato da parte dei minori, in linea con quanto stabilito già qualche anno prima da altri tribunali.
Nel 2012, infatti, un caso similare era approdato all’attenzione delle toghe teramane: questa volta era stato censurato il comportamento di un quattordicenne su Facebook e, in particolare, le sue continue risse verbali, odio e istigazione verso un coetaneo, tutto dalle pagine del popolare social network. Anche in questo caso i giudici abruzzesi avevano statuito che le necessarie attività di verifica e di controllo sull’effettiva acquisizione dei valori educativi da parte dei figli spettava ai genitori (cfr. Trib. Teramo, 16 gennaio 2012).
Adesso, dopo sette anni, le nuove tecnologie risalgono sul banco degli imputati, e con loro le scarse attenzioni che i minori ricevono tra le mura domestiche da parte di chi dovrebbe loro insegnare l’educazione, anche digitale.
È indubbiamente cambiato il rapporto genitori-figli, con i primi sempre più assenti e sostituiti dai dispositivi elettronici, per cui oggi non è affatto strano vedere una coppia di genitori dare in mano ai propri piccoli un tablet in modo da potersi dedicare loro stessi ai propri cellulari in maniera indisturbata, portando tali comportamenti alla nascita di una nuova relazione affettiva, non solo con padri, madri, amici e compagni di scuola, ma anche con il proprio smartphone. «L’anomalo utilizzo degli strumenti telematici potrebbe essere sintomatico di una scarsa vigilanza ed educazione da parte dei genitori, i quali, sono tenuti a garantire un’educazione consona alle proprie condizioni socio-economiche, e ad adempiere un’attività di verifica e controllo sul sano sviluppo psicofisico del minore» concludono i magistrati siculi, nella speranza di non rimanere inascoltati.