Nonostante l’importanza di questa figura, il Responsabile della Mobilità stenta ad affermarsi come risposta efficace ai problemi di traffico delle grandi città
Si è fatto un gran parlare in questi ultimi anni di mobilità sostenibile, tema centrale sia sul fronte energetico, sia su quello dei trasporti, e che ha visto più di un intervento del Governo, in questa legislatura,mirato ad incentivare l’utilizzo di forme di trasporto alternative all’auto privata.
Basti pensare al programma sperimentale, promosso dal Ministero dell’Ambiente, di mobilità sostenibile casa scuola e casa lavoro, che ha di recente co-finanziato, con 35 milioni di euro, la diffusione di iniziative come il car-pooling o il car-sharing, o la presentazione, proprio in questi giorni,della prima Roadmap in materia di mobilità sostenibile, con il patrocinio dei ministeri Ambiente e Trasporti, guidati da Galletti e Delrio.
Eppure, una figura che doveva occupare un posizione chiave nell’ambito di un ripensamento complessivo della politica dei trasporti, è rimasta per vent’anni nell’ombra, non riuscendo ad imporsi, nell’ambito delle politiche di governo, come possibile risposta all’impatto negativo dei trasporti sull’ambiente. Stiamo parlando del mobility manager ovvero colui che avrebbe dovuto individuare soluzioni pratiche ai problemi della congestione del traffico e delle sue conseguenze sulla salute, facilitando il dialogo tra imprese, amministrazioni comunali e società di trasporto.
Istituito dal ‘decreto Ronchi’ nel lontano 1998, il mobility manager è rimasto una figura semi-mitologica, di cui pochi conoscono l’esistenza. Effetto immediato: fallimento, a parte rari casi, dell’ambizioso obiettivo di prevenire e ridurre le emissioni inquinanti legate al settore dei trasporti, complessivamente circa il 90% delle emissioni di gas serra. L’Italia continua infatti ad avere una fortissima propensione al trasporto individuale, con l’automobile che viene ancora oggi utilizzata da circa il 75% degli italiani per i propri spostamenti.
Ma quali sono le cause del fallimento? Mentre le grandi imprese private – per le quali il mobility manager è obbligatorio con più di 300 dipendenti – hanno istituito il manager aziendale anche grazie ai contributi del Governo, gli enti pubblici e le amministrazioni statali sono rimaste indietro, facendo molta più fatica ad adeguarsi alla normativa. Sono infatti ancora troppo pochi i Responsabili della mobilità definiti “di area”, che dovrebbero agevolare, a livello comunale, l’attività dei mobility manager aziendali, operando sul lato dell’offerta di trasporto: sugli 850 mobility manager attualmente istituiti, ben 750 sono manager aziendali.
Per essere realmente efficaci, entrambe queste figure dovrebbero lavorare in completa sinergia al fine di monitorare la domanda e l’offerta di trasporto, in particolare nei grandi centri urbani, e offrire soluzioni sistematiche agli spostamenti delle persone, anche al fine di ottimizzare i costi aziendali, in armonia con le politiche di mobilità sostenibile del territorio in cui si trova l’azienda. Allo stesso tempo, i Comuni più inquinanti dovrebbero offrire una struttura di coordinamento con le aziende di trasporto, per promuovere forme di mobilità alternativa e più green.
A prescindere dai finanziamenti pubblici previsti per la sua istituzione, quella offerta dal mobility manager – sia esso aziendale, di area o scolastico – rappresenta ancora una grande occasione, non solo per i dipendenti delle grandi imprese pubbliche e private ma per l’intera collettività, che, soprattutto nelle grandi città congestionate dal traffico e dall’inquinamento, potrebbe senza dubbio beneficiare di una razionalizzazione complessiva degli spostamenti, in un’ottica di “smart city”: speriamo non vada sprecata.