Di Maio e Salvini ritengono il nome secondario rispetto al programma, ma il ruolo di Mattarella e le posizioni passate di Lega e M5S renderanno l’ostacolo difficile da superare
Nel chiedere ulteriore tempo per sbloccare lo stallo che si protrae da oltre 70 giorni, Matteo Salvini e Luigi Di Maio hanno definito rispettivamente “calciomercato” e “rito da vecchia politica” il dibattito sul premier di un eventuale Governo M5S-Lega. Prendendo la parola al Quirinale, i due leader hanno infatti ribadito che, al cospetto del confronto sui temi da inserire nel contratto tra i partiti, soffermarsi su chi si insedierà a Palazzo Chigi risulta secondario e poco in linea con il segnale lanciato dai cittadini il 4 marzo.
Pur senza sottovalutare l’importanza che i programmi hanno per la nascita e l’azione di qualsiasi Esecutivo, in questa circostanza non si può fare a meno di notare come il profilo del prossimo Presidente del Consiglio sia tutto tranne che un’ossessione dei frequentatori dei Palazzi romani. Tralasciando i consueti toni antipolitici di forze largamente rappresentate in Parlamento, il nome del Capo del Governo chiama in causa tanto aspetti di carattere istituzionale quanto questioni di coerenza tra le parole e le azioni dei protagonisti.
Come risaputo, l’articolo 92 della Costituzione prevede che “il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri”. Di conseguenza, la definizione di “esecutori” coniata da Di Maio per la futura squadra governativa non è compatibile con i poteri che la Carta assegna a Sergio Mattarella, e che egli stesso ha ricordato nelle sue ultime uscite pubbliche. Invertire la sequenza logica seguita fino a oggi per la formazione dei Governi (premier incaricato-lista dei ministri-programma) è chiaramente legittimo, ma non può far sì che il Capo dello Stato nelle prossime ore venga messo di fronte a un’intesa che, poiché frutto di una trattativa laboriosa, potrebbe venire meno qualora non agisca da passacarte.
Inoltre, un ipotetico premier terzo potrebbe incontrare problemi nell’attenersi alle forme e ai contenuti di un accordo messo a punto da due contraenti particolarmente esigenti. Volendo ricorrere a una metafora calcistica, in nessun top club italiano o europeo un allenatore non ha voce in capitolo né sulla scelta dei calciatori da acquistare né sul modulo con cui schierarli, situazione che renderebbe difficile il raggiungimento di alti traguardi.
Ma ancor di più, Movimento 5 Stelle e Lega negli ultimi anni hanno lanciato in ogni sede accuse contro i Presidenti del Consiglio del Pd “non eletti dal popolo” (i deputati e senatori del Carroccio furono anche i principali oppositori dei tecnici di Mario Monti) e hanno incentrato l’ultima campagna elettorale proprio sulla candidatura a Palazzo Chigi dei rispettivi leader, tanto che Luigi Di Maio presentò prima del voto il ‘suo’ Governo e nel nuovo simbolo del Carroccio compare la dicitura ‘Salvini premier’. Dunque, una contestuale rinuncia del capo politico M5S e del segretario leghista alla premiership in favore di un garante estraneo alla politica esporrebbe i protagonisti della cosiddetta Terza Repubblica alle stesse recriminazioni usate da entrambi contro l’establishment.
Quest’ultima considerazione, unita a quanto riportato nelle righe precedenti, porta a ritenere che il nome del premier è in realtà uno degli ostacoli all’origine del rinvio della soluzione dell’impasse, e non sarà facile superarlo. A conti fatti, le carte rimaste a pentastellati e leghisti per venire a capo del rebus sono o quella di un ritorno in auge della staffetta tra Di Maio e Salvini (sebbene nessuno si fidi di ricevere dall’altro il testimone a metà Legislatura) o la scelta di una personalità di primo piano del Tavolo tecnico tra i due partiti. Sempre che, ovviamente, il negoziato vada davvero in porto…