Sole pieno, tramontana neppure troppo rigida, una temperatura superiore ai 10 gradi. E’ questo il clima che la carica dei 1.009 grandi elettori, convocati alle ore 15 in seduta comune a Montecitorio per eleggere il successore di Sergio Mattarella al Quirinale, troveranno oggi (e nei prossimi giorni) nella Capitale.
Non male per i 58 delegati regionali (tre per regione, ad eccezione della Valle d’Aosta che ne invierà uno) che si godranno una vacanza premio nella Città Eterna ma anche per tutti i parlamentari che Roma la conoscono, qualche giorno a settimana, e che da oggi saranno invece in assemblea permanente con la responsabilità di indicare, con il rigoroso voto segreto, il nuovo volto del presidente della Repubblica, visto che il mandato di Mattarella scade il prossimo 3 febbraio.
Il clima quasi primaverile della Capitale non combacia, purtroppo, con la nebbia e il gelo che regna fra i partiti. Oggi, e in questo caso non varrà il rituale “salvo sorprese”, sarà subito una falsa partenza, visto che al primo scrutinio i leader dei partiti hanno già fatto sapere che i loro parlamentari voteranno scheda bianca.
E molto probabilmente questo è lo scenario fino a mercoledì, perchè, come recita l’articolo 85 della nostra Carta che contiene le indicazioni per le elezioni del Capo dello Stato, nelle prime tre votazioni serve il quorum qualificato dei due terzi del Parlamento in seduta comune: cioè 703 elettori su 1008.
Dal quarto scrutinio è prevista, invece, la soglia della maggioranza assoluta: 505 elettori su 1009, ed è da lì che i giochi cominceranno davvero, ammesso che possa definirsi un gioco l’ennesima incapacità della politica di sopravvivere a se stessa.
Stando ai numeri spetterebbe al centrodestra dare le carte e questo, forse, è il vero nodo, perché a Salvini brillano gli occhi al solo pensiero di poter giocare il ruolo di croupier al casinò Quirinale, nonostante nel Carroccio la corsa al riconoscimento ossessivo della sua leadership inizia ad indebolirlo.
Sul fronte Arcore, il Cavaliere ha mostrato ancora una volta ai suoi sodali, Salvini e Meloni, che a dettare le carte è e sarà sempre lui, e la candidatura annunciata e poi ritirata trionfalmente per il bene dell’Italia era una strategia fin troppo chiara per non essere compresa neppure a sinistra, dove l’incubo Cav resta tafazzianamente superiore alla necessità di un sussulto interno per dare un segno di vita.
Sullo sfondo, nonostante i numeri importanti in Parlamento, seppur prosciugati da quattro anni di governi che hanno consumato la luna di miele con gli italiani, il M5S di Giuseppe Conte, che vuole inchiodare (o crocifiggere) Mario Draghi a palazzo Chigi, ma che dovrà passare sul corpo di centinaia di parlamentari alle prese con il dramma della disoccupazione se SuperMario dovesse traslocare al Colle, decretando quindi la fine dell’attuale Legislatura.
Ad Enrico Letta, le cui doti di onestà politica e visione sono indiscusse, il compito di guidare un tentativo di accordo con il centrodestra, provando a scrollarsi di dosso quell’insostenibile leggerezza dei democratici di sentirsi sempre e comunque unici depositari dei diritti e delle scelte in questo Paese.
Mario Draghi, infine, resta in silenzio. Lui, che alla chiamata di Mattarella per salvare l’Italia dalla pandemia e dalla crisi economica aveva risposto presente, strizzando l’occhio già alle bellissime stanze del Quirinale e a quella vista mozzafiato sui tetti di Roma, non resta che attendere da giovedì che lo scrutinio passi a maggioranza assoluta, lasciando ai partiti la piena responsabilità di decidere il futuro presidente della Repubblica ma anche il futuro governo che accompagnerà il Paese in questo ultimo anno di legislatura.
Una partita, quella del governo, che per i leader di partito viene prima degli interessi del Paese perché il vero obiettivo è andare all’all in alle prossime, decisive, elezioni politiche del 2023, quelle che dovrebbero consegnare concretamente all’Italia la gestione della pioggia di miliardi del Pnrr sui quali Draghi ha dato il sangue e che non vorrebbe certo vedere disperdere fra le beghe dei partiti.