L’Italia è il paese del rinvio. Numerosi sono i casi di riforme approvate in pompa magna dai governi e mai attuate dai governi medesimi o da quelli successivi. Numerosi i casi di rinvio a tempo, determinato o indeterminato, dell’applicazione di norme di legge già approvate: c’è anche un apposito decreto, approvato ogni anno, il c.d. mille-proroghe nel quale si proroga qualunque cosa, dall’applicazione di un’imposta all’entrata in vigore di una riforma ( es.: il codice della crisi).
Meno normale è che si rinvii la democrazia. Nell’anno e mezzo che il mondo, e non solo l’Italia, ha vissuto nella pandemia si è votato in ogni luogo. Il 4 maggio si è votato in Spagna, nella “comunidad” madrilena per le elezioni regionali. Il 17 marzo si è votato per le elezioni politiche in Olanda, il 24 gennaio per le elezioni presidenziali in Portogallo, il 15 marzo per le elezioni comunali in Francia. Tra qualche giorno, il 6 maggio, si voterà per le elezioni amministrative in Inghilterra e Scozia.
In Italia no. Il presidente Mattarella, la sera del 2 febbraio, all’esito della rinuncia del mandato esplorativo concesso al Presidente della camera Fico, dopo le dimissioni di Conte, prima di incaricare l’attuale premier Draghi, ha pronunciato un discorso duro, alto e particolarmente severo, paragonabile forse solo a quello successivo alla rinuncia di Conte nel 2018.
Matterella, nel richiamare la necessità di un governo stabile, ha chiuso la strada al voto, ha affermato la necessità di un governo stabile in grado di affrontare la pandemia e la campagna di vaccinazione, la crisi economica ed il recovery fund. Non che non fosse vero; il Paese si trovava allora all’apice delle sue difficoltà sanitarie, politiche, istituzionali ed economiche. Tuttavia, quell’esclusione a priori del voto come strumento di risoluzione della crisi, non solo di governo, lascia un interrogativo.
E’ davvero l’Italia un paese dove si crede al voto popolare? Il tema può essere peraltro esteso dalle elezioni politiche ai referendum abrogativi. Questi, previsti come istituti di democrazia diretta dall’art. 75 della Costituzione, in deroga, quindi, alle forme della democrazia parlamentare, pur essendo stati nel periodo tra gli anni Settanta e Novanta motore di molte riforme, più o meno ampie, sono oggi di fatto in disuso.
La Corte Costituzionale sempre più spesso nel giudizio di ammissibilità che compie tende a ritenere, per diversi motivi che ora non possiamo elencare, che il referendum non si possa tenere. E’ anche questo segno che l’Italia si sta disabituando al voto. Un altro segno è certamente derivato dall’ulteriore rinvio, recentemente deciso dal Governo, per le elezioni amministrative previste in giugno e rinviate ad ottobre.
Il tema qui trattato, si badi, non è giuridico. Le decisioni del Presidente Mattarella e della Corte costituzionale appaiono tutte costituzionalmente ineccepibili. Qui non si tocca il piano costituzionale ma quello politico e, se vogliamo, istituzionale. Fin quando la politica deve riassumere le sue contraddizioni da sola, rischiando di diventare autoreferenziale e distaccata, come infatti sta diventando, e non deve invece cercare la soluzione delle crisi che essa genera nel corpo elettorale che la legittima e la elegge?
La democrazia non si ferma davanti a nulla: una guerra, una pandemia, una rivoluzione, una crisi. La democrazia, se ci si crede, si adatta ma non si mette da parte. La democrazia si pratica e non si declama. Si applica e non si interpreta. Altrimenti perde il suo senso e diventa una oligarchia, un governo dei pochi che decidono e si affidano ai molti quando sanno che quelle decisioni saranno approvate.