Terza puntata del nostro focus sulla democrazia diretta. Prosegue il programma del Ministro Fraccaro volto all’introduzione di nuovi strumenti per favorire il coinvolgimento alla vita pubblica. Si inizia con il referendum, ma sorgono i primi dubbi: allargare l’intervento elettorale non è sempre sinonimo di maggior partecipazione e qualità delle decisioni
di Alessandro Alongi
È vera democrazia quella in cui un esiguo numero di elettori decide per il Paese intero? Favorire gli strumenti di partecipazione potrebbe aumentare il coinvolgimento popolare a scapito della “qualità” delle decisioni? Questioni spinose e complesse possono essere decise soltanto con un “si” o un “no”, affidando lo scettro a cittadini generalmente poco informati?
Torna alla ribalta il tema della riforma degli strumenti di partecipazione popolare in chiave “diretta”, complice anche la chiamata alle armi delle truppe grilline in occasione della decisione da assumere in merito alla concessione o meno dell’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini utilizzando la piattaforma informatica Rousseau.
A queste e ad altre domande il Parlamento si prepara a fornire le prime risposte, e il banco di prova è rappresentato dalla riforma costituzionale in ordine al referendum popolare, dopo il raggiunto accordo circa l’introduzione di un quorum “morbido”: se la riforma andrà in porto, le future consultazioni saranno valide indipendentemente dal numero dei partecipanti, ma a condizione che i “SI” o i “NO” siano superiori a un quarto degli aventi diritto al voto, ovvero a 12,5 milioni di elettori, base minima adesso per la validità referendaria.
Quali saranno gli effetti di tale riforma è arduo da pronosticare, ma pur non disponendo di particolari capacità divinatorie qualche interrogativo è possibile porselo:
Le riforme proposte, tese ad allargare la partecipazione popolare, rappresentano una novità?
La risposta è NO: anche la riforma costituzionale proposta da Matteo Renzi aumentava gli strumenti costituzionali di partecipazione popolare. Nel progetto immaginato dall’ex premier di Rignano si introduceva la possibilità di indire referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché altre forme di consultazione. Inoltre, nella riforma immaginata, si pensava di dare maggiore dignità alle leggi di iniziativa civica, con deliberazione da parte del Parlamento “a data certa”. Stesse previsioni volute dall’attuale Ministro per la Democrazia diretta Riccardo Fraccaro (M5S). Si dubita che negli ambienti renziani si intenterà un’azione per la difesa del copyright.
L’abbassamento del quorum deliberativo favorisce la partecipazione popolare?
Teoricamente SI ma sostanzialmente NO: analizzando i dati sulle consultazioni referendarie dal 1990 al 2016, e prendendo a riferimento i quesiti che non hanno raggiunto il quorum necessario per la validità secondo le regole attuali (ovvero la maggioranza degli aventi diritto al voto) si rileva che solo in 8 casi su 28 gli stessi sarebbero stati dichiarati validi con il quorum “approvativo” al 25% (tra i quali l’abolizione della caccia, della quota proporzionale e stop alle trivelle). Forse è un’analisi troppo approssimativa ma, prima facie, anche un basso quorum pare non stimolare più di tanto gli elettori. Insomma, se un quesito non interessa c’è poco da fare. Meglio il mare.
È giusto delegare decisioni complesse in mano a pochi?
La risposta non c’è – Che il referendum sia un modo di decidere troppo “esemplificato”, dopo la Brexit, è cosa nota a tutti. Il rischio di rimettere tutto in mano al corpo elettorale ha i suoi rischi, soprattutto umorali. Ne è un esempio la consultazione referendaria del 2016 proposta da Matteo Renzi (ancora lui): i sondaggi mostravano chiaramente come la maggioranza degli italiani era favorevole ad una riforma costituzionale (una su tutte: l’abolizione del CNEL), ma la maggior parte di loro ha utilizzato lo strumento referendario per mandare un chiaro segnale al governo dell’epoca, bocciando la riforma tout court, non tanto votando sui contenuti quanto sul contenitore.
La politica può spogliarsi del suo potere decisionale?
La risposta è ASSOLUTAMENTE NO – Non decidere, non assumersi nessuna responsabilità, rimettere tutto nelle mani dei cittadini. Il rappresentante che delega il rappresentato è una contraddizione in termini. Questo è un rischio (e una tentazione) a cui il potere politico deve sottrarsi. Assumersi la responsabilità di una decisione – pagando il relativo prezzo politico – è insito nella democrazia. La politica è anche mediazione, cosa antitetica al SI/NO referendario. Il popolo è sovrano, è vero, ma tale sovranità è esercitata tramite una delega. E se qualcuno obietta dicendo che i politici sono incapaci ricordiamogli chi è che li vota.