Secondo l’ultimo Fiscal Monitor del FMI i nostri titoli quest’anno varranno oltre il 23% del PIL, non esattamente una quantità semplice da piazzare sui mercati. Un peccato, perché i nostri Btp riescono a garantire notevoli rendimenti, sia su base nominale sia su base reale
C’è stata un’epoca, a onor del vero neanche troppo remota, nella quale si viveva senza spread.
Ebbene sì, quello che è ormai l’arcinoto differenziale tra i titoli di Stato italiani e tedeschi, fino a qualche anno fa, era un termine tecnico, usato negli ambienti finanziari dagli addetti ai lavori e da pochi palati fini dell’economia.
Poi c’è stata la grande recessione del 2008 e la crisi del debito sovrano europeo che ha visto l’Italia tra i protagonisti di primissimo piano e che ha lasciato, tra le tante eredità, anche l’uso diffuso di questa parola che fa – per dirla in punta di penna – storcere il naso ai politici, spaventare gli investitori e, sempre toccandola piano, “sbuffare” i cittadini.
Il punto è che lo spread non è solo un termine, non è neanche una minaccia o un anatema lanciato dalle stanze del potere di Bruxelles. Lo spread è la cosa più vicina ad essere un termometro dell’economia finanziaria, lo strumento che misura la febbre al debito pubblico: ignorarne l’esistenza o fingere che non ci sia non lo farà scomparire magicamente.
Per restare in metafora medica, negare la malattia non porta alla guarigione (soprattutto se il paziente in questione, l’Italia, ha il terzo debito pubblico più alto al mondo).
Un approccio che però risulta scarsamente condiviso dall’esecutivo che, al di là delle valutazioni politiche, ha forse preso un po’ sottogamba la suscettibilità dei mercati finanziari. Non è infatti un caso che lo spread ad oggi galleggi sopra i 270 punti e che sia raddoppiato dalle elezioni politiche dello scorso 4 marzo.
I fattori che contribuiscono all’innalzamento del livello, occorre precisare, sono molteplici e non tutti adducibili esclusivamente alle dichiarazioni del governo ma, è cosa certa, che la potenza di certe esternazioni abbia effetti immediati.
Sul fronte politico si può anche comprendere – ma non giustificare – la necessità che porta gli esponenti di spicco degli schieramenti in campo ad alzare sempre più il tiro: dal patto di governo in poi si è entrati in una lunga campagna elettorale che si è chiusa giusto stanotte ma, va anche osservato, che le elezioni non cancelleranno le richieste dei mercati. Richieste che torneranno puntualmente all’indomani del voto e, se non esaudite e neppure ascoltate, non possono che impattare negativamente, dapprima sull’economia finanziaria e dunque sull’economia reale.
Partendo da quest’ultima, gli effetti dell’innalzamento dello spread sono stati, per ora, ancora limitati con un impatto sul costo del denaro assorbito pressoché in toto dalla liquidità delle banche. Liquidità che non pesca nella falda acquifera e che, va da sé, può – ma non deve – esaurirsi. In questa poco rassicurante eventualità si assisterebbe a un effetto a catena che comporterebbe un accesso più difficoltoso al credito per privati e aziende, una conseguente diminuzione degli investimenti, mancate assunzioni o conferme da parte delle imprese, una nuova stretta sui consumi e via così in una inerpicante scala a chiocciola verso la stagnazione se non recessione.
Tornando alla finanza la musica si fa ancor più greve. Uno spread troppo alto ha chiaramente impatti negativi sui titoli di Stato che, per essere collocati, devono dare garanzie agli investitori sulla restituzione dei propri soldi. Investitori che per oltre il 60% sono italiani, banche, assicurazioni e fondi ma anche risparmiatori privati, semplici cittadini che hanno deciso di investire nei titoli di Stato.
Secondo l’ultimo Fiscal Monitor del FMI i titoli quest’anno varranno oltre il 23% del PIL, non esattamente una quantità semplice da piazzare sui mercati ed anche se le aste di aprile sono andate meglio di ogni previsione non è detto che il successo si ripeta con le sessioni estive. Ed è tutto sommato un peccato perché i nostri Btp riescono a garantire rendimenti, sia su base nominale sia su base reale (ovvero considerano l’inflazione).
Un vecchio adagio diceva che anche se non ci si occupa di politica la politica si occuperà di noi. Un pensiero che vale anche per l’economia che si interesserà della politica anche se questa proverà a disinteressarsi di economia. Con conseguenze ben più gravi.