In un suo saggio del 2013, lo storico e politologo Giorgio Galli – noto per aver dedicato gran parte della propria ricerca intellettuale allo studio degli aspetti irrazionali e magici che concorrono ad alimentare l’adesione di massa verso particolari ideologie politiche, soprattutto quelle di natura totalitaria – così scriveva:
“Il regime totalitario si serve della categoria di nemico oggettivo, perfezionamento e compimento della categoria di nemico interno… Nemico oggettivo è colui che, nonostante ogni suo eventuale sforzo o opinione soggettiva, è di fatto nemico del regime per il semplice fatto di esistere… È dunque un nemico spersonalizzato, strutturale, impersonale: un nemico che proprio per la sua opaca oggettività potrebbe essere difficile o impossibile individuare e rappresentare, e che, proprio per questo, deve essere iper-rappresentato, con l’enfatizzazione dei suoi tratti negativi, così che contro la sua presenza sistemica, appunto oggettiva, si possa eccitare e scagliare il massimo di energia politica”.
In un modo un po’ più banale e semplificato, un concetto abbastanza simile viene ribadito anche da un pensiero che, negli ultimi mesi, sta girando molto sul web – sotto forma di meme – e che viene attribuito al filosofo inglese Bertrand Russel: “La paura collettiva stimola istinto del gregge e tende a produrre ferocia nei confronti di coloro che non sono considerati membri del branco”.
Detto in parole semplici, in ogni epoca storica – soprattutto in epoche di crisi – e per ogni ideologia politica antidemocratica, la necessità dei cosiddetti “capri espiatori” pare essere un elemento imprescindibile, che spesso viene portato avanti con atteggiamento sordo ad ogni ragionamento di buon senso e con più o meno grande e profonda ferocia, nei confronti del gruppo identificato come “nemico sociale”.
L’esempio degli ebrei durante il regime nazista è quello più noto, ma non si tratta di un’eccezione della storia. Il meccanismo si è riprodotto centinaia di volte, in ogni epoca e in ogni cultura, non solo in quella occidentale. Limitandoci all’Europa e all’occidente, è stato così fra cattolici e protestanti durante la Guerra dei trent’anni – nella quale perse la vita quasi un terzo della popolazione mitteleuropea – è stato così per gli untori durante le pestilenze, per i presunti controrivoluzionari borghesi durante le purghe staliniane, per i càtari e gli albigesi, per i vandeani durante la Rivoluzione francese, per le streghe di Salem in Massachusetts.
Per costruire questi “mostri” e giustificare la ferocia da scatenare contro di loro, è prima di tutto necessario – come spiegato da Galli – iper-rappresentarli, enfatizzarne la forza, raffigurarli come un’entità monolitica e oscura, che va al di là dell’umano, poiché è al tempo stesso al di sopra dell’uomo – praticamente un’entità malvagia, dotata di superpoteri e ramificazioni occulte, che vuole mettere in pericolo e forse addirittura sterminare l’umanità – e contemporaneamente al di sotto, al pari delle bestie, di cui i membri di quei gruppi condividono i bassi istinti e la totale mancanza di cultura.
È, in estrema sintesi, il tipo di raffigurazione simbolica e mitica con cui l’occidente ha rappresentato per secoli la figura del “diavolo”, cioè il male assoluto, che è contemporaneamente sovrumano e bestiale, e che si incarna dunque e ha le sue propaggini nella “diabolica” categoria sociale che, di volta in volta, viene presa di mira.
La ragione è evidente: disumanizzare e demonizzare il “nemico” giustifica un atteggiamento efferato e violento contro di lui. Ogni violenza verso un membro di quella categoria, non è più considerata un crimine, bensì un benefico atto per salvare l’umanità. “Tu sei il male e io sono la cura” si potrebbe dire, citando Sylvester Stallone in “Cobra”.
Spesso, però, quelle contro cui ci si scaglia, sono categorie sociali inesistenti. A volte inventate di sana pianta, come fu nel caso delle streghe. E comunque, anche quando esistono, si tratta di gruppi sociale assai poco monolitici e univoci nella loro struttura. Illuminante, in tal senso, fu quanto disse Marc Bloch – grande intellettuale e storico francese – negli anni Trenta del secolo scorso: “non ho mai pensato di essere ebreo, finché non incontrai degli antisemiti”. Fu proprio l’antisemitismo a rafforzare culturalmente e politicamente, per reazione, l’identità ebraica.
Dunque, spesso, è proprio la feroce guerra che viene fatta dai sedicenti “difensori del bene”, a dare a quei gruppi di “cattivi” un senso di identità (e conseguentemente, in una qualche misura, una effettiva “pericolosità” per il sistema), che altrimenti non avrebbero. Quella di considerarli il male – un male che non esiste nella realtà – diventa una sorta di “profezia auto avverante”.
Questo meccanismo è oggi in atto nei confronti dei cosiddetti “No Vax” e “No Pass”, categorie della comunicazione attualmente in voga, spesso mescolate le une con le altre e, altrettanto spesso, associate ad altre “creature” – più o meno reali, o più o meno mitologiche – di cui pullula il nostro immaginario collettivo associato al male. Vuoi il male della scarsa conoscenza scientifica, come nel caso dei “terrapiattisti” e degli “analfabeti funzionali”, oppure quello del minaccioso pericolo politico antidemocratico – sempre paventato come dietro l’angolo – come nel caso dei “gruppi neofascisti”.
Ovviamente si tratta di rappresentazioni simboliche, potremmo dire dei “Miti”, che presentano spesso una scarsa attinenza coi fatti. Che rapporti possa avere, ad esempio, un uomo dichiaratamente di sinistra come Massimo Cacciari – per citare uno dei più attivi e in vista fra i cosiddetti “No Pass” – col variegato pulviscolo dell’ideologia neofascista, non è dato sapere.
Cosa c’entri un raffinato intellettuale come Giorgio Agamben col “terrapiattismo” – tra l’altro una categoria iper-citata dai media, nonostante conti nel mondo poche dozzine di adepti – o con l’analfabetismo funzionale, è altrettanto poco chiaro.
Né è chiaro perché un Enrico Montesano e un Diego Fusaro, uno Stefano Puzzer e un Carlo Freccero, debbano essere messi in uno stesso calderone, considerati membri di un pericoloso, sovversivo e soprattutto unico pensiero politico.
Loro e quei milioni di persone che – in Italia e nel mondo – stanno avanzando critiche nei confronti della gestione della pandemia, non fanno affatto parte di un movimento univoco e monolitico, di un’entità schedabile e classificabile in una stessa e ben definita categoria politica e sociale, come quella dei semi-inesistenti e fin troppo citati “No Vax”.
Sono semplicemente persone – diverse per gusti, idee politiche, finalità, educazione e cultura e, tra l’altro, tranne poche eccezioni, niente affatto “No Vax” – che sollevano domande sulle numerose e oggettive contraddizioni riscontrate nella comunicazione dominante riguardo al rischio pandemico e alle conseguenti scelte sanitarie e politiche sinora effettuate.
Persone che, dunque, richiederebbero soprattutto delle convincenti risposte nel merito di quei dubbi, al fine di poter essere rassicurate e convinte della bontà di quelle scelte. Risposte che, qualora le decisioni prese dai diversi governi – come si spera – siano state dettate essenzialmente dalla finalità di proteggere la popolazione, senza doppi fini, sarebbe davvero semplice e immediato poter fornire, spegnendo così sul nascere ogni polemica.
Invece si sta seguendo una strada opposta: quella dell’invenzione prima e della criminalizzazione poi di questa mitologica categoria dei “No Vax”, messi tutti insieme, senza fare distinzioni. Si è scelta, dunque, la strada della rottura del dialogo e del patto sociale. Si è scelta la strada della disumanizzazione propagandistica, a cui viene quotidianamente sottoposta questa inedita “classe” di nuovi untori.
Si è perciò scelta la strada di dire – come ai tempi delle guerre di religione – “noi” siamo gli umani, “loro” no. Proprio come avrebbero fatto alcuni nostri avi, in epoche buie. O come avrebbero fatto i membri delle tribù dei “Bantù”, o di quelle dei “Lakota”, o degli “Inuit”, tutti nomi che, nelle rispettive lingue di origine, hanno lo stesso significato: “gli umani”. Perché la piena umanità – in quelle società ancora prive di scrittura, così come nella nostra attuale società dell’algoritmo – viene riconosciuta solo a chi è totalmente all’interno della tribù stessa e viene totalmente negata a tutti gli altri.
Ma se i Bantù e i Lakota, perlomeno, spostavano all’esterno da sé il proprio “nemico disumano”, noi – moralmente impossibilitati, oggi, in epoca di “politicamente corretto”, a rappresentare il nemico come colui che ha etnia e colore della pelle diverso dal nostro – lo rappresentiamo al nostro interno, costruendo nuove categorie di “disumani”, al posto di quelle a cui storicamente eravamo più abituati. “Che tutto cambi affinché tutto resti uguale”, avrebbe detto il Gattopardo.
Come dicevamo all’inizio, socialmente questo avviene, di solito, nei momenti di particolare crisi e di paura. Su un piano politico, invece, di cosa sia prodromo e segnalatore questo meccanismo, lo ha spiegato bene Giorgio Galli. Anche in questo caso, per comprendere, basta tornare in alto e rileggere dall’inizio. Mi auguro solo che Giorgio Galli avesse torto.