Attacchi scomposti al Quirinale che, semmai, ha concesso qualcosa di troppo all’inizio. Ora verso un nuovo decisivo referendum
Di S.D.C.
Il giorno dopo il discorso del Presidente della Repubblica, che ha certificato le ragioni della rinuncia del premier incaricato a formare un nuovo Governo, il tema più importante è sotto gli occhi di tutti: il rischio concreto che ad una crisi politica manifesta già dal 4 marzo, si possa aggiungere una crisi istituzionale con uno scontro frontale, inedito per la storia repubblicana, tra Quirinale e suoi critici, nel caso specifico Lega e Cinque Stelle, con il recente corollario di Fratelli d’Italia, supportati da larghi strati dell’opinione pubblica.
Si tratterebbe di un fatto gravissimo, foriero di una situazione pericolosa per la tenuta democratica del Paese, oggetto di reazioni prevedibilmente negative per quegli stessi mercati finanziari citati dal Presidente (in base al paventato rischio per il risparmio degli italiani, costituzionalmente garantito) e per il giudizio degli osservatori internazionali. Impensabile il clima in cui si svolgerebbe la prossima campagna elettorale, peraltro mai terminata anche in questi mesi e già di per sè inevitabilmente avvelenata.
Se questo è il panorama che potrebbe delinearsi, occorre agire con calma ma altrettanta fermezza per sgomberare subito il tavolo dalla materia del “contendere”. Ovvero dal comportamento del Capo dello Stato che, secondo quanti arrivano a sostenere la possibilità di una sua “messa in stato d’accusa”, avrebbe travalicato i propri poteri argomentando una sorta di reato di opinione per il casus belli (la nomina di Paolo Savona al Mef), osteggiando di fatto la nascita dell’esecutivo di Giuseppe Conte.
Sergio Mattarella anche a parere di eminenti costituzionalisti si è mosso invece, come spiegato del resto da lui stesso, esattamente nel solco di quanto previsto dalla Costituzione per i rapporti che intercorrono con il premier incaricato e tra questi e la compagine proposta allo stesso Colle. Irrituale semmai era stato tutto il capitolo precedente con la stesura di un inedito contratto di programma, la sua approvazione dai rispettivi partiti e la “trattativa” tra un premier non eletto in Parlamento e i due leader-azionisti la cui foto al tavolo del negoziato è stata postata con ostentazione sbeffeggiando nei fatti procedura e Presidenza. Per non parlare della assurda scenetta dei due leader che, usciti dal colloquio con Mattarella, non fanno il nome del premier incaricato e poi lo rendono noto in piazza e sui social. Per dirla in breve il Capo dello Stato, lo ha ammesso lui stesso nel puntiglioso “discorso al Paese” di ieri sera, è stato fin troppo paziente davvero al limite del dettato costituzionale. Fino a quando rischiava, questa volta sì, di “attentare” alla Carta se avesse rinunciato ad esercitare il proprio potere di veto sulla casella decisiva del titolare dell’Economia apponendo la firma sul decreto di nomina.
Sicuramente, conoscendo il carattere del Presidente, egli ha soppesato molto anche gli effetti della sua decisione. La ricostruzione quasi giornalistica e perfino con alcuni inediti di questi giorni di crisi infinita fino al suo epilogo, doveva servire proprio a mostrare con piena trasparenza il tentativo di favorire la nascita di un governo politico tra le sole due forze con i numeri per farlo. Non si può tuttavia non riconoscere che i riferimenti, peraltro inevitabili, ai mercati e alle cancellerie straniere con il loro ruolo affatto banale nelle dinamiche di questa congiuntura (in alcuni casi comunque inaccettabili e che forse andavano per tempo denunciate), offriranno potenzialmente il destro ai venti sovranisti e populisti di ingrossarsi e soffiare più forte. In realtà, proprio l’argomento più o meno nascosto nel programma gialloverde, ovvero il posizionamento concreto in Europa e soprattutto nell’Europa monetaria, diventa adesso il centro del confronto elettorale. Senza coperture di sorta e sbianchettamenti dell’ultim’ora per vedersi spalancare le porte di Palazzo Chigi. Ne risentiranno i posizionamenti politici ed i conseguenti schieramenti magari scomponendosi e ricomponendosi. Finalmente però senza finzioni e simulazioni. Conviene dirsi fin d’ora che la prossima chiamata alle urne ed il suo esito, questa volta sarà paragonabile, per gravità, alla scelta compiuta dal Paese nel referendum del 1946 cui seguì il primo voto repubblicano dell’aprile 1948.