Sarà Il Consiglio Ue del 10 aprile a determinare se sarà no deal o ‘rinvio flessibile’ di un anno. Macron per la linea dura con i britannici, Merkel preoccupata dal divorzio senza accordi. A Londra continua lo stallo
Mancano pochi giorni a venerdì 12 aprile, nuova data di uscita del Regno Unito dall’Unione europea, e la situazione sul fronte Brexit continua a essere lungi dall’essere chiara. Anche la scorsa settimana è stata infatti costellata da una successione di eventi imprevisti e, talvolta, anche contradditori tra loro.
Ricostruendo con ordine il quadro, il 1° aprile la Camera dei Comuni ha di nuovo respinto tutte le opzioni alternative al Withdrawal agreement negoziato dalla primo ministro Theresa May e per ben tre volte bocciato dalla stessa Assemblea di Westminster. A quel punto, per cercare in extremis una via di uscita all’impasse May ha teso la mano al leader dei laburisti Jeremy Corbyn, invitandolo a concordare una soluzione sulle future relazioni tra Gran Bretagna ed Europa entro il Consiglio Ue di mercoledì 10 aprile. Soluzione, che con tutta probabilità consisterebbe in una Brexit soft, basata sulla partecipazione britannica all’unione doganale e al mercato unico comunitario.
L’avvio delle discussioni tra la premier e il capo dell’opposizione non è stato accolto con favore dai parlamentari dei rispettivi partiti, e molto difficilmente i colloqui produrranno risultati concreti nell’arco delle prossime ore. Se così fosse, la primo ministro ha garantito che si rimetterà all’esito di una nuova tornata di votazioni dei Comuni su possibili ‘Piani B’: da un rapporto con l’Unione europea improntato al modello norvegese all’idea di convocare un secondo referendum, fino alla scelta radicale di revocare l’articolo 50 sul recesso dall’Ue. Come accennato in precedenza, tuttavia, finora a Westminster è emersa unità di intenti solo nell’opposizione al no deal (l’epilogo shock del divorzio senza accordo tra Londra e Bruxelles) e appare improbabile che da qui alle prossime ore la situazione possa cambiare.
Data la ristrettezza dei tempi per evitare l’aggravarsi dell’attuale fase di stallo, il 5 aprile Theresa May ha scritto al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk chiedendo un ulteriore slittamento della separazione dall’Unione al 30 giugno, con la possibilità di anticipare il tutto a prima del 22 maggio (in modo da evitare la partecipazione del Regno Unito alle prossime elezioni Europee) qualora Tories e Labour riuscissero nella doppia impresa di raggiungere in tempi brevi un’intesa e farla ratificare dalla Camera dei Comuni.
La nuova richiesta della premier britannica ha poche probabilità di essere accolta, da un lato perché per qualunque proroga della Brexit è necessario il via libera unanime dei 27 Capi di Governo Ue (i quali nelle ultime settimane sono parsi determinati nel voler concedere rinvii extra solo a fronte dell’emergere di novità concrete a Londra) e dall’altro in quanto, sempre il 5 aprile, si è diffusa la notizia che Tusk suggerirà al club degli Stati membri di concedere alla Gran Bretagna un ‘rinvio flessibile’ di un anno, interrompibile nel momento in cui Westminster approvi un accordo per il ritiro dall’Unione.
In definitiva, tutto si deciderà nel Consiglio europeo di dopodomani (i cui lavori si annunciano destinati a prolungarsi fino a notte inoltrata), dove sarà da vedere se tra i leader del Continente prevarrà la linea dura del presidente francese Emmanuel Macron o il desiderio della cancelliera tedesca Angela Merkel di scongiurare a ogni costo il no deal. Addio traumatico subito o slittamento al 2020 della soluzione del rebus (magari con secondo referendum o nuove elezioni generali annessi): queste sembrano le sole opzioni rimaste in campo, con la prima che avanza inesorabilmente…