di Francesco Scolaro
La riforma del mondo del lavoro è solo un progetto (il famoso Jobs Act), i cui particolari devono ancora essere ben definiti, ma ha già sollevato un enorme polverone. Il Governo Renzi ha posto come obiettivo per l’approvazione finale del DdL Delega sul lavoro (all’esame dell’Aula del Senato) la data di mercoledì 8 ottobre. Poi toccherebbe al Governo scrivere i relativi decreti attuativi. Però, qualora i lavori in Parlamento proseguissero troppo lentamente, Renzi ha già avanzato l’ipotesi di procedere alla riscrittura delle norme che regolano il mercato del lavoro con un decreto-legge (in questo caso, paradossalmente, il caso straordinario di “necessità e urgenza” potrebbe essere effettivamente individuato nel crescente tasso di disoccupazione). Il PD si è spaccato in due, con la “vecchia guardia” (vicina alle posizioni della CGIL) che non nasconde la propria contrarietà a qualsiasi passo indietro in materia di diritti del lavoratore, facendo della difesa dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori una questione di principio.
Il nuovo fronte aperto sul tema “lavoro” ha fatto sì che da alcuni giorni sia passata in secondo piano la mancata elezione da parte del Parlamento – dopo ben 13 votazioni – di due membri della Corte Costituzionale e di otto membri laici del Consiglio Superiore della Magistratura (sei sono stati eletti nella scorsa settimana). Al di là dello spettacolo indecoroso offerto dal Parlamento in tale circostanza, la mancata elezione ostacola il regolare funzionamento dei due organi di garanzia giuridica della Costituzione. Tuttavia, mentre la Consulta può operare in piena legittimità anche con gli attuali 13 membri (e perfino con 11), l’attuale CSM è in prorogatio da più di due mesi nell’attesa che Camera e Senato facciano il loro dovere e che, finalmente, il CSM rinnovato si possa ufficialmente insediare. Questa situazione di grave stallo istituzionale è già stata oggetto di un duro comunicato del Colle attraverso il quale il presidente Napolitano ha reso pubblica la sua irritazione: “Il succedersi senza risultati conclusivi delle votazioni del Parlamento in seduta comune per la elezione dei componenti laici del CSM e dei giudici della Corte Costituzionale destinati a succedere ai due che hanno completato il mandato, solleva gravi interrogativi. Che si siano verificati nel passato analoghi infelici precedenti, nulla toglie a tale gravità”.
Sulla querelle Consulta-CSM solo sporadico è stato invece l’intervento del Presidente del Consiglio Renzi, che si è limitato a dire, giorni fa, che la soluzione sarebbe stata trovata. Il low profile scelto dal premier è sicuramente dettato dalla giusta esigenza di tenere fuori il potere esecutivo (rappresentato dal Governo e incarnato dal Presidente del Consiglio) da una questione che riguarda esclusivamente il potere legislativo (rappresentato dal Parlamento e incarnato dai 945 parlamentari). Tuttavia, Renzi non è solo il capo del Governo ma è anche il segretario del partito di maggioranza relativa in Parlamento, e a lui, insieme alla segreteria nazionale del PD (quella nuova si è insediata lo scorso 16 settembre), spetta il compito di cercare di trovare una soluzione istituzionale in grado di sbloccare questa imbarazzante fase. Dunque, perché sull’affaire nomine, dopo due settimane di rinvii e fumate nere, perdura uno stato di sostanziale impasse?
Il Presidente del Consiglio non ha mai nascosto il suo malumore dovuto al fatto che questo Parlamento non sia il “suo” Parlamento. Tanto è vero che, come detto, proprio Renzi ha “minacciato” di fare la riforma complessiva del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali con decreto-legge. In altri termini, lo strumento del DL utilizzato per scardinare le ormai note lungaggini parlamentari e per bypassare la crescente fronda interna al PD.
Sempre durante la scorsa settimana, Renzi ha chiaramente indicato come prioritario il varo della nuova legge elettorale: dopo l’approvazione da parte della Camera (lo scorso 12 marzo), il DdL è rimasto fermo in un cassetto in Commissione Affari costituzionali del Senato senza venire mai calendarizzato. Questa nuova e improvvisa staffetta tra il DdL di riforma della Costituzione (che fino alla pausa estiva aveva priorità assoluta) e quello contenente la nuova legge elettorale potrebbe non essere affatto casuale.
In altri termini, il Parlamento è spaccato e incapace di dare le risposte che i cittadini si aspettano, bloccato al punto da non riuscire a compiere neanche un atto dovuto (e costituzionalmente previsto) come quello dell’elezione di due giudici della Consulta e di otto membri del CSM; il Governo legifera facendo continuo ricorso (o minacciando di farlo) al decreto-legge; una nuova legge elettorale in tempi ragionevolmente brevi è di nuovo tornata a essere una priorità per il Presidente del Consiglio; la popolarità di Renzi è ancora molto alta (nettamente al di sopra della media degli altri principali esponenti politici) ed è chiaro che il 40% ottenuto dal PD alle passate elezioni europee è frutto dell’“effetto Renzi”; tra gli altri leader politici non si vede chi possa avere concrete chance di vittoria in uno scontro elettorale con il premier; lo spettacolo che le Camere stanno offrendo negli ultimi mesi non è di certo confortante e, quantomeno potenzialmente, questo potrebbe tradursi in un’ulteriore crescente personalizzazione della politica, segno che alle prossime elezioni conteranno – di nuovo – più i nomi dei programmi.
Come ha avuto modo di scrivere lo scorso 16 settembre sul Corriere della Sera il costituzionalista siciliano Michele Ainis, “nei manuali di diritto la paralisi delle assemblee parlamentari, l’incapacità di assolvere ai propri adempimenti costituzionali, descrive un presupposto tipico per il loro scioglimento anticipato.” Renzi avrebbe così individuato il “colpevole” della mancata attuazione del programma di Governo (che dovrebbe essere di legislatura, come dichiarato dallo stesso premier in Parlamento il 16 settembre) e la gran parte degli italiani non farebbe molta fatica a credere che sia effettivamente così. Non sembra poi così tanto fantapolitica immaginare che per le prossime elezioni, più che il 2018, basterà attendere il prossimo anno.