Facebook e Instagram come cianuro, arsenico e stricnina: sostanze pericolose, mortali, da maneggiare con cura, specie se minori e non accompagnati. È quanto emerge, in estrema sintesi, dalle inchieste sui Facebook Files che il Wall Street Journal ha pubblicato nei giorni scorsi e che stanno facendo molto discutere.
Secondo quanto riportato dal quotidiano americano, dai documenti interni dell’azienda di Menlo Park emergerebbe una sinistra consapevolezza sulla nocività di Instagram, la celebre applicazione di proprietà di Mark Zuckerberg che si basa sulla pubblicazione e condivisione quasi esclusiva di immagini e fotografie degli utenti.
Secondo una gola profonda all’interno della società, esiste uno studio – sempre smentito all’esterno dai vertici aziendali, almeno sino allo scoppio dello scandalo – sul possibile danno cerebrale provocato da Instgram nelle fasce più vulnerabili per sesso e per età. Secondo il carteggio ancora top secret, ad esserne più colpite sarebbero le ragazze teenager.
In questi giovani soggetti, secondo lo studio custodito nel quartier generale di Facebook e portato alla luce dal quotidiano della Grande Mela, Instagram sarebbe in grado di provocare “problemi connessi al proprio aspetto fisico in una adolescente su tre”. I continui confronti visivi su Instagram, infatti, possono cambiare il modo in cui le ragazzine vedono e descrivono sé stesse, in genere poco attraenti rispetto a giovani modelle e influencer che appaiono sugli schermi dei loro smartphone.
Non solo. Anche la continua esposizione al social network accrescerebbe sensazioni di inadeguatezza, inferiorità e disordini alimentari, aumentando sensibilmente il livello di ansia e depressione nelle adolescenti, che tenderebbero sempre a percepirsi come perdenti in una continua comparazione sociale con gli altri utenti.
I ricercatori di Instagram, da anni, studiano gli effetti del social sui giovani utenti, ma Facebook ha sempre minimizzato gli effetti negativi dell’app, e non ha mai reso pubblica la sua ricerca.
Secondo il Wall Street Journal, il modello di Instagram, che si concentra soltanto sulle immagini (e, in particolare, sul corpo e sullo stile di vita), sarebbe la causa principale dei continui confronti sociali, dinamica alla base dell’acquisto – o la maggior parte delle volte della perdita – di autostima nelle ragazzine, in relazione soprattutto all’immagine del proprio corpo e del tenore di vita. L’app, in sostanza, genererebbe una gara impari, tra ragazzine della porta accanto e mostri sacri del web, il cui esito è facilmente pronosticabile. Da qui la generazione di frustrazione già in tenera età.
In argomento Facebook ha rispedito le accuse al mittente, ammettendo comunque l’esistenza della ricerca incriminata:“Sebbene la storia si concentri su una serie limitata di risultati getti su di essi una luce negativa, sosteniamo questa ricerca. Essa dimostra il nostro impegno a comprendere problemi complessi e difficili con cui i giovani possono lottare, e informa tutto il lavoro che facciamo per aiutare coloro che stanno vivendo questi problemi”.
La documentazione al centro del caso è emersa grazie alle rivelazioni di un’ex dipendente di Facebook, Frances Haugen che, in un’intervista alla CBS, non ha esitato a sottolineare come “Ho assistito ripetutamente a conflitti di interesse fra quello che era buono per il pubblico e quello per che era buono per Facebook. E Facebook ogni volta ha scelto quello che era meglio per lei”.
Secondo la Haugen, Mark Zuckerberg non ha mai “deciso deliberatamente di creare una piattaforma dedicata all’odio” ma, in presenza di un modello comunque redditizio per l’azienda, abbia chiuso un occhio davanti “a scelte i cui effetti collaterali conducono a guadagni maggiori“.
Le sue accuse non sono di poco conto: “Facebook sta lacerando le nostre società e causando violenze etniche in tutto il mondo, incluso il Myanmar nel 2018 quando i militari hanno usato Facebook per scatenare un genocidio”, affermazioni definite “fuorvianti” dall’azienda californiana. In attesa di un chiarimento forse sarebbe opportuno avviare un dibattito sugli effetti delle storie (virtuali) sulla quotidianità (reale) di milioni di ragazzi.