Da molte parti, e giustamente, il Covid viene considerato uno di quei passaggi epocali che consentono di ripensare e di riformare alcuni assetti organizzativi consolidatisi nel tempo. Tra questi ci sarebbe anche l’Università e, più in generale, il sistema di istruzione superiore italiano, sebbene di questi tempi se ne parli davvero poco rispetto ad altro.
Parto da un convincimento che mi viene dall’esperienza diretta nel mondo accademico: non credo ci sia nessuno che, vivendo il mondo universitario sia dal di dentro sia come utente esterno (imprese, istituzioni, ecc.), possa negare di assistere ad un continuo, progressivo e inarrestabile processo di decadimento e peggioramento qualitativo della formazione universitaria.
Continuiamo ad affliggerci con i dati che ci mettono tra le ultime nazioni in Europa rispetto al numero di laureati per popolazione, ma non poniamo minimamente attenzione al fatto che la qualità dei nostri laureati è peggiorata in modo sensibile negli ultimi dieci anni. Io credo che serva a poco avere molte persone col titolo, se poi la preparazione è scarsa, non fosse altro perché, giustamente, la laurea aumenta le aspettative di chi la possiede ma non aumento le sue prestazioni lavorative o la sua produttività.
Inoltre, se si va a vedere come è stato strutturato il sistema di valutazione interno della qualità dei corsi universitari, ci si accorge in modo inequivocabile che questo è fondato solo sulla correttezza formale dei processi o, detto in un modo più prosaico, sul fatto che i documenti previsti siano tutti e completi, senza preoccuparsi troppo di ciò che vi è scritto. A riprova di quanto, lancio in modo provocatorio una quesito: quanti aspiranti studenti e quante famiglie che devono mandare i figli all’Università hanno letto la fantomatica scheda SUA che dovrebbe descrivere le caratteristiche di ogni corso universitario? Rispondo io per tutti: pochissimi o più ancora nessuno. E vi assicuro che per compilare la scheda SUA e per aggiornarla ci si deve investire un bel po’ di tempo. Insomma, è stato creato l’ennesimo “mostro burocratico” senza che questo abbia reali effetti migliorativi.
Ci sono però altre due questioni che a mio parere hanno profondamente inciso sulla qualità delle nostre università. La prima è stata la famosa riforma “Berlinguer” del 1999, che per inciso la stessa CGIL ha dichiarato essere stata un fallimento, quella che ha introdotto il percorso formativo basato su una prima laurea triennale e poi altri due anni di laurea magistrale o specialistica. La riforma era stata motivata per adeguarci al sistema europeo – a me viene da dire che volevamo “scimmiottare” il sistema anglosassone, vittime come siamo di un incomprensibile provincialismo esterofilo – ma era chiaro dall’inizio che sarebbe servito a poco modificare il percorso di studio universitario senza modificare il mercato di “sbocco” dei laureati e cioè il mercato del lavoro.
Alla fine, perciò, se l’obiettivo era quello di ridurre il tempo medio di permanenza degli studenti all’Università, i dati mostrano che la situazione su questo aspetto è peggiorata. Ma non era difficile prevedere un simile esito. Se ci riflette un attimo, infatti, si sa bene che esistono due tipi di studenti: quelli che studiano e quelli che studiano meno (senza volere giudicare i motivi di questo minor studio). Per i primi, che mai si sarebbero potuti accontentare della sola laurea triennale, quasi tutti i corsi di laurea si sono allungati di un anno, passando da quattro a cinque. Per gli altri, quelli meno impegnati negli studi, il fatto di aver ridotto il primo livello di diploma a tre anni cambia poco la durata degli studi che saranno comunque superiori a tre anni, ma anche a quattro o cinque. Risultato finale: stiamo molto peggio di prima e abbiamo dovuto far proliferare i corsi per andare a trovare quanti più studenti possibile.
La seconda ragione del declino del sistema universitario è l’eccessivo proliferare di nuove sedi universitarie e in particolare delle università telematiche. Anche in questo caso le ragioni dell’ampliamento dell’offerta erano in origine nobili, consentire a quante più persone possibile, anche ai meno abbienti, di poter studiare all’università, ma si sono rivelate una “foglia di fico” di un atteggiamento populista per usare un termine di modo oggi, non fosse altro perché far crescere a dismisura l’offerta formativa senza garantire gli organici necessari ad assicurare un livello adeguato di qualità dei corsi è stato assolutamente controproducente, soprattutto per quelli che, senza risorse, non si possono permettere le università più prestigiose che di norma si trovano nei centri urbani, mediamente più costosi. Così ogni università per mantenere in piedi i corsi di laurea deve affidare un numero molto alto di insegnamenti a docenti non provenienti dal mondo accademico. Di per sé questa ultima situazione non è negativa (l’esperienza anglosassone insegna molto in tal senso), ma sapendo quanto vengono pagati i docenti a contratto (poche centinaia di euro a corso) è ovvio che la scelta non può essere di altissimo livello.
Se poi si vanno a guardare le università telematiche, si arriva ad una situazione paradossale. Questi atenei, infatti, più ancora che quelli tradizionali, vivono in funzione del numero di iscritti. Ebbene, per aumentare gli iscritti le università telematiche si sono strutturate offrendo molte convenzioni con le quali vengono riconosciuti molti crediti formativi (necessari per giungere al compimento del percorso universitario) alle più disparate categorie di lavoratori (dipendenti pubblici, appartenenti alla forma armate, dipendenti INPS, ecc.). In altre parole, se si appartiene ad una delle categorie convenzionate, si devono fare molti meno esami per conseguire il titolo universitario, dando per scontato il fatto che svolgere un certo lavoro assicuri una preparazione teorica sufficiente per acquisire una determinata competenza. Non credo servano altri commenti per far capire che fine fa la qualità della formazione universitaria italiana.
Concludo, con una affermazione che potrà apparire presuntuosa: è mia modestissima opinione che la grande maggioranza degli operatori universitari condivida queste riflessioni circa le cause del declino, ma che preferisca non esporsi per evitare di non essere politicamente “scorretto”. Spero per il futuro del nostro sistema universitario di aver torto.