Sorprende che a nessuno interessi dare una spiegazione al fatto che il fenomeno dei Presunti Maltrattamenti a Scuola (PMS) ha luogo nella sola Italia e in nessun altro Paese occidentale. Possibile che le “maestre cattive” si trovino esclusivamente nella nostra Penisola, quasi si tratti di una singolare affezione genetica nazionale?
Istituzioni, politica, sindacati, associazioni di categoria e, non ultima, opinione pubblica ignorano la stravagante anomalia rincorrendo la soluzione tecnologica (installazione di telecamere a tappeto) senza riflettere sulle tante implicazioni e perplessità che ne discendono. Eppure, le ragioni per riflettere sono tante, a cominciare dal fatto che queste indagini professionali sono inopinatamente appannaggio di inquirenti non addetti ai lavori. Segue a ruota il ricorso inedito ad audiovideointercettazioni (AVI) in ambiente scolastico – secondo fattore critico – che non ha ricevuto l’attenzione che merita poiché smantella e annienta il diritto costituzionale alla riservatezza dell’individuo e, al contempo, del lavoratore (art. 4 Statuto dei Lavoratori).
A sottolineare la delicatezza della questione vi sono le sempre attuali parole del cardinale Richelieu (“Datemi sei frasi scritte del più onesto degli uomini e vi troverò un motivo per impiccarlo”) che, oggi, suonano oltremodo preoccupanti per la tecnologia intrusiva di cui disponiamo. Questa fornisce immagini, più o meno intime e riservate del malcapitato oggetto d’indagine, carpite dal buco della serratura, e a sua insaputa per tutto il corso della giornata per periodi illimitati. Cosa che potrebbe capitare a ognuno di noi.
A chi, preoccupato, sostiene che l’incolumità dei bimbi prevale sul diritto alla riservatezza ci sentiamo di rivolgere un messaggio tranquillizzante poiché mai si è registrato un problema grave a scuola per causa delle maestre (ferite, lesioni gravi e meno gravi etc). Nonostante gli oltre trecento procedimenti penali in corso, infatti, i reati di sangue con morti e feriti si sono avuti esclusivamente in ambito familiare e mai a scuola.
La scuola per i bambini è, e rimane, il posto sicuro per eccellenza: forse in quanto luogo pubblico o più semplicemente perché frequentato da molte persone a vario titolo (docenti, bidelli, dirigente, genitori).
Voler installare telecamere in ogni dove significa poi abolire quel rapporto di fiducia tra scuola e famiglia faticosamente conquistato, costruito e collaudato che riconosce in capo alla mamma il compito educativo del figlio e alla maestra quello socializzante del bimbo a lei affidato.
Se comunque si vogliono posizionare telecamere ovunque, si trovino i soldi necessari e si adottino avvertenze e precauzioni necessarie per non inciampare in errori che insegnanti e alunni si sono trovati a pagare a caro prezzo a causa dell’entrata nella scuola di persone estranee che non ne conoscono realtà, dinamiche, linguaggio e possiedono competenze affatto diverse da educazione, pedagogia e sostegno ai disabili. Non pochi sono i casi in cui interventi di contenimento, speriamo in buona fede, sono stati scambiati per violenze ai danni del bimbo disabile anziché a sua tutela.
Interroghiamoci pertanto e valutiamo il da farsi prima di trovarci a scoprire che i benefici apportati dalle telecamere sono assai inferiori ai problemi generati. Di seguito un elenco, per nulla esaustivo, delle molte questioni sollevate dal ricorso all’uso di AVI con l’uso di telecamere nascoste nelle indagini dei procedimenti penali.
- Perché il fenomeno dei PMS è esclusivamente italiano?
- La violazione del diritto alla riservatezza di individuo e lavoratore può essere cancellata senza un vero dibattito (e col coinvolgimento delle Parti Sociali)?
- Nel caso di indagini col ricorso ad AVI, non sarebbe corretto prevedere a priori un contingentamento standard dei tempi per evitare intercettazioni ad libitum (pesca a strascico)?
- Sarebbe auspicabile escludere l’allargamento delle indagini con AVI ad altre maestre che non sia quella denunciata, per evitare le conseguenze della cosiddetta pesca a strascico.
- Occorre stabilire quante AVI (in quota %) deve visionare come minimo il giudice per avere idea del reale clima nell’ambiente scolastico. Questo provvedimento serve a ridurre l’effetto di decontestualizzazione, selezione avversa ed estrapolazione degli episodi contestati.
- Brogliacci contenenti singoli “frame” devono essere obbligatoriamente accompagnati da video. La singola foto non rende l’idea dell’antefatto, né degli sviluppi di un’azione.
- Si deve tenere conto della presunta gravità degli episodi che è di fatto inversamente proporzionale al numero di proroghe AVI concesse dal GIP e richieste dal PM.
- L’assenza dell’arresto in flagranza di reato ha il medesimo significato di cui sopra. Il mancato ricorso all’arresto indica che l‘A.G. non ritiene elevato il rischio cui sarebbero sottoposti i piccoli alunni.
- Le trascrizioni delle AVI effettuate dagli inquirenti non devono contenere commenti, giudizi, drammatizzazione, sottolineature, grassetti, caratteri maiuscoli, evidenziature o altre modalità per condizionare il lettore richiamandone l’attenzione a scapito delle altre parti del testo.
- Ruolo e cortocircuitazione del DS: occorre meditare (come sostenuto da alcuni giudici) se taluni comportamenti delle maestre integrano la soglia del penalmente rilevante o sono piuttosto censurabili con un semplice provvedimento disciplinare.
- La cortocircuitazione del dirigente scolastico da parte di A.G. e genitori finisce per essere la causa del fenomeno esclusivamente italiano.
- I tempi della giustizia sono esageratamente lunghi e inconciliabili con quelli della scuola. Inoltre, il dirigente scolastico può intervenire tempestivamente senza dover attendere mesi per i tempi d’indagine. Solo in questo modo si evita l’eventuale esposizione al rischio dei bimbi.
- Lista nera/bianca dei metodi correttivi da redigere. Mentre risulta dichiarata la lista dei comportamenti che le maestre non devono tenere coi loro alunni (percosse, strattonamenti, sberle, umiliazioni, intimidazioni etc), non è esplicitato l’elenco dei metodi correttivi cui una insegnante può ricorrere. Un problema non da poco, cui la suprema Corte stessa in ambito penale non ha finora saputo/voluto dare soluzione.
- Abitualità degli episodi necessaria a qualificare il reato come “maltrattamenti”. Non esiste a tutt’oggi un criterio oggettivo per stabilire quando un comportamento è da ritenersi abituale. Ne discendono valutazioni e sentenze diverse da caso a caso e da giudice a giudice.
- Ambiente familiare e parafamiliare: l’art. 542 del c.p. è denominato “maltrattamenti in famiglia” anche se comprende anche i maltrattamenti in ambito parafamiliare 8scuola o lavoro). Tra questi ambiti è ricompreso anche l’ambiente scolastico che, però, è affatto differente dalla famiglia. Facendo un parallelo tra le due realtà ci rendiamo conto che la mamma e la maestra vivono situazioni estremamente differenti: 1) rapporto 1:1 (mamma-figlio) vs. 1:29 (maestra alunni); 2) un solo stile educativo vs. stili educativi multipli (tanti quanti sono i bimbi in classe più quello della maestra); 3) finalità educativa della mamma vs. finalità socializzante della maestra; 4) dimora privata vs. ambiente pubblico; 5) presenza maschile paterna vs. assenza di figura maschile.
- Spese per l’affitto delle telecamere e spese generali per i procedimenti penali. Si tratta di risorse dell’erario che potrebbero essere evitate se la scuola gestisse i suoi problemi internamente, attraverso il dirigente scolastico e le apposite strutture sovraordinate (USP/USR).
- Il gratuito patrocinio e il reato di “violenza assistita” (che non richiede alcuna certificazione medica per essere provata e dimostrata) allargano poi a dismisura la potenziale schiera di parti civili che sperano in un improbabile risarcimento o ristoro del danno.
- Non possiamo tralasciare anche l’influenza dell’educazione vecchio stile (l’età media delle insegnanti è superiore ai 50 anni) e il tardivo ricambio generazionale tra le maestre per l’allungamento dei tempi di quiescenza, a causa delle inopinate e numerose riforme previdenziali al buio in una professione considerata “gravosa”.
- Da ultimo vogliamo ricordare la “drammatizzazione” attuata dagli inquirenti non addetti ai lavori nella trascrizione degli episodi contestati. Valga su tutti l’esempio proprio di una suora che si rivolge a un bimbo distratto chiamandolo “tontolo” ma l’agente intende l’offesa “stronzolo” e così la trascrive nel capo d’imputazione.
Conforta riconoscere che alcuni giudici, più di altri, arrivano a comprendere il grande equivoco che pone il nostro Paese in una posizione singolare rispetto al fenomeno dei PMS. Mi piace riprendere a tal proposito quanto affermato dal Tribunale del Riesame di Quartu circa un caso di PMS nel 2017. Tutti i concetti allora espressi restano più vivi e attuali che mai guidandoci nella lettura di una questione ancora irrisolta:
- I singoli episodi non possono essere “smembrati” per ricavare dall’esame di ciascuno di essi la sufficiente gravità indiziaria…
- …gli episodi acquistano una diversa valenza se avulsi dal contesto di un’intera giornata di lezione della durata di 5 ore in un contesto quotidiano e mensile…
- …le condotte della maestra, lungi dall’integrare il ricorso a sistematiche pratiche di maltrattamento, possono invece ricondursi allo svolgimento dell’attività di docenza…
- …laddove il tono di voce della maestra risulta innegabilmente alterato, va considerata l’episodicità (pochissimi i file audiovideo incriminati rispetto ai quasi 1.000 prodotti) …
- …l’esame del materiale non consente di ritenere che la condotta della maestra integri la soglia del penalmente rilevante, connotandosi al più come espressione di discutibili metodi didattici che esauriscono la loro censurabilità in ambito disciplinare…
Tutte parole e riflessioni che ci inducono ad affrontare il fenomeno dei PMS in modo serio e coscienzioso perché vanno di mezzo non solo bambini ma anche professionisti che a questi hanno dedicato la loro vita.