La prima repubblica non è mai morta. La fascinazione per dei nomi e dei simboli che hanno accompagnato il percorso democratico del nostro Paese, dalle macerie della seconda guerra mondiale agli anni dell’edonismo reaganian-craxiano, continua con la rinascita del Pci che annuncia la propria apparizione sulle schede elettorali per le europee 2019
di LabParlamento
Dopo oltre 25 anni, la prossima campagna elettorale sarà segnata dal ritorno del Partito Comunista Italiano ad annunciarlo è una nota diffusa dal rinato PCI, i cui organismi dirigenti hanno recentemente scelto di avviare la raccolta delle firme per presentare il simbolo storico dei comunisti italiani alle prossime elezioni europee. LabParlamento intervista il segretario del Pci Mauro Alboresi.
Dopo la Dc di Rotondi anche il Pci annuncia il proprio ritorno sulle schede elettorali. A seguito della nascita di innumerevoli contenitori politici comunisti – da Rifondazione al PdCI – da dove nasce l’esigenza e la responsabilità di riportare in auge un nome e un simbolo così ricco di storia e significato?
La scelta di rimettere in campo il PCI, concretizzatasi nel 2016, è maturata nel tempo. Ad essa si è giunti al termine di un lungo percorso, che prese il via dall’appello “Ricostruire il Partito Comunista” al quale molteplici soggetti organizzati e non aderirono. Le ragioni di tale scelta risiedono in quanto è accaduto nel quarto di secolo intercorso dal suo scioglimento, dalle ragioni che ne sono alla base. Dopo la “caduta del muro”, con tutto il suo carico simbolico, dopo il crollo dell’URSS, il capitalismo si è proposto come trionfante, prospettando pace, democrazia, sviluppo per l’intero pianeta. A fronte di ciò in tanti finirono addirittura con il parlare di fine della storia. In Europa come in Italia, tanta parte dei partiti comunisti allora in campo, compreso il PCI, assecondarono tale lettura sciogliendosi, dando vita ad altre esperienze politiche. L’idea di fondo era quella di potere rappresentare le ragioni di quello che sino ad allora era stato assunto come il blocco sociale di riferimento, a partire dal mondo del lavoro, in una “cornice politica” diversa, assumendo la centralità del mercato, dell’impresa, le compatibilità date. Tale idea, come noto, in tante realtà, in tanta parte, si è dapprima definita socialdemocratica, poi genericamente di sinistra, poi meramente democratica, in un processo di disarmo ideale, prima ancora che ideologico, progressivo, ancora lungi dall’essere risolto. Il risultato di ciò è sotto gli occhi di tutti: quel blocco sociale non ha più rappresentanza, le sue istanze sono state sacrificate sull’altare delle compatibilità di un sistema che ha ben presto evidenziato la propria natura, i propri obiettivi. Le promesse fatte si sono rivelate un inganno. Mai come oggi, infatti, pace e democrazia sono in discussione, mai nella storia le disuguaglianze sono state così marcate, il lavoro così mortificato. Quelle esperienze politiche versano in una profonda crisi. La scelta di rimettere in campo il PCI nelle condizioni date ha quindi motivazioni forti, concrete. Ciò che serve è un soggetto capace di mantenere in campo la critica agli assetti fondanti del sistema capitalista, oggi in crisi strutturale, prospettare una alternativa, dando voce e rappresentanza a quel blocco sociale che oggi più che mai ne è privo. Rifarsi a quel nome, a quella simbologia non è quindi casuale, né dettato da mera nostalgia, è ben altro: risponde ad una esigenza dell’oggi e del domani.
Dal 2008, il simbolo della falce e martello, ininterrottamente presente nelle aule parlamentari dal 1946, è rimasto fuori dalle istituzioni. Perché il comunismo non attrae più le masse come un tempo?
Che il simbolo falce e martello, i simboli del lavoro, del riscatto e dell’emancipazione, siano da molto tempo espunti dal Parlamento è il risultato di tale processo, dell’affermarsi di tali politiche, ed ovviamente dei limiti dell’azione delle forze dichiaratamente comuniste che sino al 2008 vi erano presenti, delle scelte da esse compiute, anche e soprattutto nella fase dei governi di centrosinistra. Le ragioni per le quali il comunismo non attrae più le masse come un tempo ha molteplici motivazioni, che vanno ricondotte alla storia del novecento, alla storia del movimento comunista internazionale, alla storia dei comunisti in Italia. Si tratta di un sconfitta politica, non certo della fine della storia. L’attualità del socialismo, la prospettiva del comunismo sono tutt’altro che superate proprio in ragione di ciò che accade del perché accade.
Nel 1976 il Pci contese la vittoria elettorale alla Dc, arrivando addirittura a 12 milioni e 600 mila voti. Come si spiega, in quarant’anni, un cambiamento così significativo delle preferenze elettorali degli italiani?
Il grande seguito del PCI, la cui storia coincide per tanta parte con la parte migliore della storia del Paese, del quale è stato artefice. La capacità di quel partito di interpretare i bisogni del mondo del lavoro, delle masse popolari, del Paese, rappresentandoli e contribuendo al loro soddisfacimento, è stato alla base del suo successo. Quanto su richiamato, quanto accaduto nel nostro Paese nel tempo, spiega per tanta parte il cambiamento intervenuto nelle preferenze elettorali degli italiani.
Perché, nell’era del post-idealismo e della disintermediazione, il cittadino x dovrebbe votare per il Pci?
In tanti definiscono questa come l’era del post ideologismo e della disintermediazione, e per tanta parte si tratta di una lettura interessata. Noi ne cogliamo e denunciamo i limiti, i rischi connessi. Siamo e restiamo convinti della necessità di una “visione del mondo”, di una idea di società. Non ci convincono i post ideologici, quelli né di sinistra, né di destra, né di centro, gli interclassisti. Gli uni e gli altri finiscono con il portare acqua al mulino dei pochi a discapito dei tanti, a non cambiare lo stato delle cose. Noi, il PCI, proponiamo un idea di società diversa da quella impostaci, proponiamo pace, lavoro, diritti e democrazia, libertà dal bisogno per tutte e tutti, un cambiamento sociale e politico dell’Italia, che abbiamo riassunto in un articolato programma, nello slogan “Più Stato e meno mercato”.
Il Pci, recentemente, ha annunciato la volontà di presentarsi alle elezioni europee. Quali sono le principali proposte programmatiche del rinato Partito comunista?
L’Europa affermatasi all’insegna della cultura liberista imperante si è dimostrata essere ben altro da quella auspicata da Altiero Spinelli ed altri a suo tempo. Non siamo di fronte ad un’Europa sociale, dei lavoratori, del popolo. L’Unione europea di oggi è essenzialmente finanziaria, assai poco economica, per nulla sociale, e delle sue politiche all’insegna dell’austerità i popoli europei ne hanno pagato e continuano a pagare il conto, registrando un progressivo peggioramento delle loro condizioni. La crisi dell’Unione Europea è sempre più evidente, il distacco di tanta parte dei cittadini europei sempre più marcato, e le prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo diranno tanto al riguardo, ridefinendo gli equilibri conosciuti. Alla crisi dell’Unione Europea si può rispondere in diversi modi. Per alcuni è necessario andare in direzione di più Europa, per altri occorre affermare una dimensione meramente sovranista, per altri ancora è necessario imboccare la via nazionalista. Noi come la pensiamo lo abbiamo detto da tempo: siamo contro questa Europa, della quale l’Euro è il collante, vogliamo affermarne un’altra, “dall’Atlantico agli Urali” votata alla pace, alla solidarietà, alla collaborazione con tutti i popoli, con il mondo. Ciò che serve non è quindi più Europa, o l’affermazione della primazia di un popolo rispetto ad un altro, ma un’altra Europa. Da ciò discende il programma per l’Europa che il PCI propone agli elettori chiamati a pronunciarsi il prossimo 26 maggio.