Durante il dibattito i tre candidati non escono dai rispettivi copioni. Poca chiarezza sul futuro del partito
Si è tenuto ieri in prima serata il primo e unico confronto tra i tre candidati che si contenderanno, con le primarie di domenica 30 aprile, la carica di segretario del Partito Democratico.
Matteo Renzi, Michele Emiliano e Andrea Orlando hanno infatti dibattuto, per circa un’ora e un quarto, negli studi di Sky TG24, rispondendo a domande sui principali temi dell’attualità politica: dalla data di conclusione dell’attuale Legislatura alle strategie di riforma della legge elettorale, dagli effetti del Jobs Act alla necessità di ridurre il cuneo fiscale, passando per immigrazione, rapporti con l’Unione europea, bioetica e sicurezza.
Dalla discussione non sono emerse particolari novità per una contesa che, a meno di imprevisti nel giorno del voto, appare segnata da settimane: Renzi dovrebbe infatti essere confermato alla guida del Pd, e l’unica incertezza riguarda la percentuale di voti che raccoglierà ai gazebo (se dovesse totalizzare meno del 50%, la scelta del nuovo segretario spetterebbe all’Assemblea Nazionale, organo di rappresentanza delle varie correnti del partito). La posizione di vantaggio dell’ex premier è stata inoltre confermata dalla condotta di Emiliano e Orlando, che nella maggior parte dei loro interventi hanno puntato a smarcarsi, seppur con stili differenti, dall’esperienza di tre anni di governo terminata con il referendum del 4 dicembre 2016.
Più in generale, il confronto ha rispecchiato l’andamento in tono minore che ha fin qui assunto il Congresso del Partito Democratico, dal momento che anche ieri sera nessuno dei candidati ha dato dimostrazione di poter andare oltre il ruolo che hanno rivestito da quando, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, si è aperta la procedura per il rinnovo della leadership dem. Difatti, se è piuttosto chiaro che Matteo Renzi consideri l’appuntamento della prossima domenica come un mezzo per rilanciare la propria immagine, lo è altrettanto notare che Michele Emiliano si sia dato l’obiettivo di guidare l’opposizione interna nel prossimo futuro (prendendo così il posto occupato dai bersaniani prima della scissione di Mdp) e che Andrea Orlando intenda riportare il Pd su posizioni di sinistra in linea con le sue radici, per quanto l’essere stato ministro di Renzi (circostanza più volte sottolineata dall’ex inquilino di Palazzo Chigi) mini inevitabilmente l’efficacia del suo tentativo.
Sono lontani, in definitiva, i tempi in cui le primarie dem catalizzavano l’interesse dei media e appassionavano il popolo del centrosinistra. Anche sull’affluenza attesa ai gazebo nessun contendente ha puntato in alto, tanto che Renzi si è addirittura detto soddisfatto di qualunque cifra al di sopra di 1 milione di votanti, numero che in passato sarebbe stato considerato fallimentare, mentre Emiliano e Orlando nei rispettivi appelli finali si sono rivolti in via principale agli elettori scontenti o delusi dall’attuale quadro politico.
Se il dibattito doveva essere un’occasione per portare al centro del dibattito pubblico il futuro del partito che, effettivamente, permette alla base di scegliere la propria guida, l’obiettivo non è stato raggiunto. Non bastano degli scambi di battute su articolo 18 o Fiscal compact per rendere attraente una competizione.