Provocano polemiche, irritazione, distinguo ma, a ben vedere, sono inevitabili nell’attuale scenario e, del resto, finora non hanno mai influito più di tanto…
di S.D.C.
Il commissario agli Affari Economici della Ue, Pierre Moscovici, per la seconda volta in pochi giorni ha messo nel mirino il nostro Paese esprimendo giudizi sul prossimo appuntamento elettorale del 4 marzo: “La grande sfida dell’Italia è ridurre il debito, il 3% di deficit/Pil non è un obiettivo auspicabile se si vuole rafforzare la crescita dell’economia”. E sugli scenari post-voto: “ll mio unico auspicio è che il prossimo Governo, quale che sia perché sono gli italiani che votano, sia un Governo pro-europeo. Stabilità e pro-europeismo sono criteri molto buoni. È questo che mi interessa”.
“Moscovici è un commissario europeo socialista francese, non parla a nome dell’Unione Europea”, si è affrettato a precisare il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani. Però subito dopo sono arrivate le parole del vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis: “L’Italia deve continuare a ridurre il deficit. Sulle elezioni tocca agli italiani decidere”, ha spiegato, ricordando però che “un paio di mesi fa, con il commissario Moscovici, abbiamo mandato una lettera congiunta alle autorità italiane delineando lo sforzo di bilancio per continuare a ridurre il deficit”. E Tajani, evidentemente, ha fatto buon viso a cattivo gioco.
In realtà, il fatto è che a Bruxelles sono davvero preoccupati dell’esito del voto italiano, del populismo e dell’anti-europeismo assai poco striscianti della campagna elettorale e delle costose promesse che coalizioni e partiti vanno proponendo quando non siamo nemmeno ancora entrati nello scontro finale. Come dar loro torto?
La campagna elettorale, appunto, si gioca a suon di sfondamenti del tetto deficit/Pil proprio quando la ripresa economica si consolida (con l’Italia però tra i partner più deboli); la soluzione, tuttora in salita, della crisi politica tedesca non appare affatto dietro l’angolo; le politiche Ue, di conseguenza, sono più o meno ferme nonostante i tentativi francesi di rimettere in moto l’asse Parigi/Berlino; la trattativa sul dopo Brexit si manifesta sempre più complessa e costosa; i Paesi dell’Est si fanno sempre più pretenziosi in richieste e veti. Infine, per quanto riguarda il Bel Paese, c’è già da tempo sul tavolo del nuovo Governo una manovra correttiva da alcuni miliardi euro da approvare in primavera e, dulcis in fundo, in autunno si concluderà il programma di acquisti di titoli di Stato della Bce con inevitabili tensioni sul solito spread e nei confronti dei mercati borsistici più esposti sul fronte bancario, come il nostro.
Non dimentichiamo che, proprio per questo, il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha preferito lasciare in carica il Governo Gentiloni nel caso in cui l’assenza di una maggioranza certa e/o il protrarsi della trattativa rischiassero di privare i mercati e le autorità istituzionali internazionali di un punto di riferimento certo e stabile.
Insomma, ce n’è abbastanza per allarmare Bruxelles, far sì che suoi esponenti esprimano questo timore e facciano riferimento al necessario mantenimento della stabilità fin qui garantita dal Governo Gentiloni. Ma che dovrebbe esserlo, nella logica europea, anche da qualsiasi esecutivo si insediasse dopo il 4 marzo. Ingerenza, dunque? Piuttosto svolgimento dei propri “compiti istituzionali”. Una pratica che poi, se vogliamo dirla tutta, fin qui non è servita affatto a quanti ne sembravano direttamente favoriti. Basti, ultimo dei casi, Matteo Renzi e il suo referendum costituzionale. E prima di lui un certo Mario Monti che, alle elezioni del 2013, ottenne assai poco seguito e poi iniziò un rapido declino in quanto a carriera politica nonostante proprio lui, a furor di popolo, avesse salvato l’Italia dal crack europeo. Scherzi della storia, della politica, della congiuntura economica e, soprattutto, delle convenienze del momento.