Il gigante californiano ha presentato ricorso contro la sanzione da 1,5 miliardi di euro decisa da Bruxelles a marzo. Dopo i casi Android e sul servizio comparativo dei prezzi, il contenzioso in corso rappresenta il terzo atto dello scontro tra Big G e il team di Margrethe Vestager: in totale, il conto da pagare supererebbe gli 8 miliardi di euro
A distanza di quasi tre mesi è arrivato il ricorso di Google contro il terzo cartellino sventolatogli dall’Antitrust europeo. Nella giornata di ieri il gigante californiano ha infatti annunciato di aver impugnato l’atto con cui Bruxelles a marzo aveva imposto una multa di 1,5 miliardi di euro all’azienda, per presunto abuso della propria posizione dominante nel campo della pubblicità online.
Sotto la lente del Dipartimento per la Concorrenza, guidato dalla commissaria europea Margrethe Vestager, era finita AdSense, la piattaforma di raccolta pubblicitaria di Google. Grazie ad AdSense è possibile pubblicare annunci pubblicitari sulla propria pagina Web, guadagnando in base al numero di “esposizioni” dell’annuncio pubblicitario (c.d. impression) o sui “click” effettuati dagli utenti sugli annunci.
In particolare, la condotta contestata dall’Ue riguarda il servizio di ricerche offerto da molti siti web o blog ai propri utenti; all’interno delle pagine Web, infatti, sovente è presente la classica buchetta per le ricerche offerta da Google, ma incorporata nel sito terzo. Quando un utente effettua una ricerca utilizzando questa funzione, insieme ai risultati della ricerca richiesta il sito web propone loro diversi annunci pubblicitari, grazie proprio ad AdSense. Basato su algoritmi, il sistema ideato da Larry Page seleziona e fornisce tale tipo di pubblicità, detenendo l’esclusiva su ogni tipo di attività del genere.
Dal momento che i concorrenti di Google, come Microsoft e Yahoo, non hanno la possibilità di vendere spazi pubblicitari nelle pagine dei risultati di ricerca di Google, i siti web di terzi rappresentano un importante punto di accesso per questi altri fornitori di pubblicità online, nella disperata impresa di tentare di potenziare la propria attività e di competere con Google. Da qui era arrivato lo stop della Commissione Ue.
Tra le condotte oggetto del contendere l’imposizione di un obbligo di fornitura esclusiva dei servizi di Google, cosa che ha impedito ai concorrenti di inserire annunci pubblicitari collegati alle ricerche sui siti web più significativi dal punto di vista commerciale, insieme all’introduzione della strategia di “esclusiva non rigida”, pratica volta a riservare a favore di Big G i migliori spazi commerciali sui siti web, controllando al contempo come dovessero apparire i messaggi pubblicitari collegati alle ricerche dei concorrenti.
Secondo il team di Vestager la condotta contestata si è protratta per oltre 10 anni, negando ad altre società la possibilità di competere sulla base dei meriti e di innovare e, in definitiva, facendo un torto al mercato e ai consumatori, che non hanno potuto godere dei vantaggi benefici della concorrenza.
Con una quota di mercato superiore al 70%, Google è stato di gran lunga l’attore più forte nell’intermediazione pubblicitaria nei motori di ricerca in Europa. Nel 2016, anno di apertura del procedimento, Google ha detenuto quote superiori al 90% nelle ricerche Web effettuate nei singoli stati dell’Unione, e del 75% nella maggior parte dei mercati nazionali della pubblicità collegata alle ricerche.
Il contenzioso in corso non è frutto di un fulmine a ciel sereno, ma la terza tappa di un conflitto legale che si trascina da anni. Appena lo scorso anno Bruxelles aveva inflitto la sanzione monstre di 4,3 miliardi di euro per il sistema operativo Android, multa sopraggiunta dopo un’analoga sanzione da 2,4 miliardi di euro per il vantaggio illegale conferito nel 2017 al proprio servizio di acquisti comparativi. “La Commissione difenderà la propria decisione in giudiziaria”; questo è stato il laconico commento di un portavoce dell’Esecutivo di Bruxelles di fronte al ricorso avanzato dal colosso statunitense contro l’ultima sanzione decisa dalle autorità comunitarie.
In attesa dell’evoluzione degli eventi, si può affermare che il lupo digitale perde il suo pelo, ma forse non il vizio.