L’evoluzione, la flessibilità e l’ampiezza dei poteri del Capo dello Stato sono note e forse sono state concepite dai padri costituenti in modo tale da poter svolgere una funzione di ultima salvaguardia del sistema. Durante la Guerra Fredda, nei primi 25 anni della cosiddetta Prima Repubblica, quando i partiti erano forti e la partitocrazia pervadeva ogni aspetto della vita pubblica e parastatale, la Presidenza della Repubblica era quasi sempre appannaggio della DC e si limitava a un ruolo notarile e di garanzia, mai apertamente contestato.
Almeno fino a Giovanni Leone, che il PCI spinse alle dimissioni cavalcando l’inchiesta sullo scandalo Lockheed e le accuse del settimanale “L’Espresso”, poi rivelatesi infondate. Nel 1978 con l’elezione di Sandro Pertini, si aprì una fase transitoria, in cui si moltiplicarono le esternazioni e l’interventismo presidenziale, seppure solo verbale, che proseguì e si amplificò ulteriormente con Francesco Cossiga, che si rese protagonista di un duro scontro con il CSM e ammonì, nella seconda parte del settennato, i partiti dell’urgenza indifferibile delle riforme costituzionali in senso presidenziale, per salvare il sistema dall’antipolitica e dal giustizialismo che in quegli anni stava montando prepotentemente.
Con l’avvento della Seconda Repubblica e l’elezione emergenziale di Oscar Luigi Scalfaro in seguito alla strage di Capaci del 1992, la crisi di rappresentanza e l’incapacità dei partiti di rinnovarsi, distrutti e destrutturati dalle inchieste della magistratura politicizzata, portò, parafrasando il ministro Giorgetti, a un semipresidenzialismo di fatto, con la nascita dei primi governi tecnici o del Presidente.
Il politico piemontese inaugurò il suo mandato rifiutando di incaricare Bettino Craxi a formare il nuovo Governo e l’anno dopo decise di sciogliere le Camere, appena elette, per presunto discredito morale a causa del dilagare delle indagini su Tangentopoli e della vittoria dei Sì a una revisione maggioritaria della legge elettorale nel referendum del 18 aprile 1993.
Scalfaro, ex magistrato ed esponente della corrente dorotea e conservatrice della DC, si schierò apertamente con la sinistra e con i giudici quando le inchieste dei magistrati milanesi lambirono anche lui e tutti i precedenti ministri dell’Interno, accusati di ricevere dai fondi neri del Sisde un contributo di 100 milioni al mese, e obbedì alla richiesta del Pool di Milano di non firmare la legge del governo Amato che avrebbe depenalizzato il finanziamento illecito ai partiti, condannando al linciaggio giustizialista il pentapartito.
Poi, con la caduta del I governo Berlusconi, avallò il ribaltone del 1995, favorendo la nascita dell’esecutivo Dini, retto dal PDS e dalla Lega Nord staccatasi dal Polo delle Libertà, dando tempo al centrosinistra di riorganizzarsi nella coalizione dell’Ulivo e sciogliendo le Camere ancora una volta anticipatamente.
L’elezione di Carlo Azeglio Ciampi nel 1999 fu condivisa da entrambi gli schieramenti e il mandato presidenziale dell’ex Governatore di Bankitalia fu diretto alla riscoperta dell’amor di Patria. La presidenza di Napolitano, iniziata nel 2006, poi replicata nel 2013, fu alquanto controversa, perché legata al golpe finanziario dello spread del 2011, che passò da 80 a quasi 600 punti in seguito alla vendita massiccia di titoli di Stato italiani da parte della Deutsche Bank, dopo il rifiuto di Berlusconi e Tremonti di contribuire a ripianare le perdite delle banche franco-tedesche in Grecia.
La situazione finanziaria, improvvisamente divenuta critica, portò alle dimissioni del Governo e alla nomina di Mario Monti a senatore a vita e poi a Presidente del Consiglio. In due libri mai smentiti, il giornalista statunitense Alan Friedman rivela che il professore bocconiano era stato sondato da Napolitano sulla sua disponibilità ad accettare l’incarico mentre l’esecutivo era ancora in carica e disponeva di una maggioranza parlamentare.
Nel 2015 Matteo Renzi propose a Silvio Berlusconi, che avrebbe preferito Giuliano Amato, l’elezione di Sergio Mattarella, che durante il suo mandato ha esercitato con equilibrio la carica di Capo dello Stato, ma ha evitato di affrontare il problema giustizia non pronunciandosi sulla guerra intestina nella magistratura, come le sue funzioni di presidente del CSM, ormai completamente screditato dal caso Palamara, gli avrebbero permesso. Invece, il Presidente ha deciso di non sciogliere le Camere sia dopo le Politiche del 2018, che non avevano prodotto una maggioranza chiara, sia nel 2019, dopo la caduta del I governo Conte, dando la possibilità al suo partito, il PD, di tornare al potere ancora una volta senza aver mai vinto le elezioni.
Questo breve excursus storico dimostra in maniera lampante quanto sia necessaria una revisione costituzionale in senso presidenziale del nostro sistema istituzionale, che permetta l’elezione diretta di un Capo dello Stato con funzioni di governo, di un Presidente legittimato dal consenso popolare, che risponda del proprio operato non ai partiti, alla magistratura, alle Cancellerie europee, ai mercati finanziari e alle consorterie più varie ma solo ai cittadini italiani.