Secondo l’Istituto di Statistica sono 9 milioni 630 mila, al 1° gennaio 2018, i giovani italiani con età compresa tra i 20 e i 34 anni. Più della metà (5,5 milioni), celibi e nubili, vive con almeno un genitore. La media Ue è pari al 68,2%. Sono soprattutto i maschi (73,3%) ad essere più inclini a recitare il ruolo di ‘Tanguy’, rispetto alle coetanee (62,9%). Si esce di casa dei genitori più “formati”, ma il mercato del lavoro non è in grado di assorbire questo “capitale umano”
Un esercito di “bamboccioni”. Così probabilmente avrebbe commentato l’ex Ministro dell’Economia Padoa Schioppa alcuni dei dati contenuti nell’ultimo rapporto dell’Istituto nazionale di Statistica del nostro Paese.
Secondo l’Istat sono 9 milioni 630 mila, al 1° gennaio 2018, i giovani italiani con età compresa tra i 20 e i 34 anni. Rappresentano il 16% del totale della popolazione residente e sono 1 milione 230 mila unità in meno rispetto a 10 anni fa.
Più della metà (5,5 milioni), celibi e nubili, vive con almeno un genitore. Un esercito di “bamboccioni” dunque? Forse!
Anzitutto va detto che i ‘bamboccioni’ non sono solo in Italia. I figli in età da lavoro (16-29 anni) che vivono a casa con mamma e papà sono tanti anche in altri Paesi d’Europa, dice l’Eurostat in una sua recente classifica sul tema. In Croazia, per esempio, sono il 93,1 % e in Slovacchia l’89,2 %, con il Belpaese sul podio della classifica (88,3 %).
Il fenomeno in realtà è diffuso in tutta Europa e così nel 2017 in tutta l’Ue erano praticamente sette giovani su dieci (68,2%) a vivere ancora a casa dei genitori.
Sono soprattutto i maschi (73,3%) ad essere più inclini a recitare il ruolo di ‘Tanguy’, rispetto alle coetanee dell’altro sesso (62,9%). In ogni Stato membro, infatti, la proporzione di giovani donne all’interno del nido familiare risulta inferiore a quella degli uomini.
Certo, non essere soli in questa classifica non è un elemento che possa dare tranquillità o che comunque possa indurre a non considerare in modo adeguato il trend.
Evidentemente però, se la situazione è diffusa a livello europeo, vuol dire che questo è uno dei terreni dove si deve fare “gioco di squadra”.
In generale, quindi, i giovani escono dalla famiglia di origine sempre più tardi.
Questo accade – dice l’Istat – perché le generazioni di oggi sperimentano, rispetto alle precedenti, “percorsi di vita più vari e meno lineari del passato che spostano in avanti le tappe principali di transizione allo stato adulto”.
Dall’analisi congiunta dei tempi di uscita dalla famiglia di origine e delle motivazioni emerge che la posticipazione della transizione allo stato adulto ha sempre più un carattere strutturale.
“Il prolungamento dei percorsi di istruzione e formazione, le difficoltà nell’inserimento e nella permanenza nel mercato del lavoro, nonché il conseguente ritardo dell’uscita dalla famiglia di origine e della formazione di un nuovo nucleo hanno determinato il cronicizzarsi di questo fenomeno” – chiarisce l’Istituto di via Balbo.
La lettura dei dati nel tempo è emblematica. Nel Secondo dopoguerra l’indipendenza si raggiungeva a circa 25 anni. Negli anni settanta a circa 28. Nel 2016, invece, è uscito dalla famiglia di origine il 43,3% dei giovani di 20-34 anni, mentre erano il 46,3% nel 2009.
Ma chi esce di casa lo fa per crearsi una propria famiglia? Oggi questo “status” appartiene solo al 29,1% dei giovani tra 20 e 34 anni, coniugati o meno. Venti anni fa la percentuale era decisamente superiore sfiorando il 38%.
Questo “ritardo” nella formazione di una propria famiglia e nell’avere figli è più evidente nella fascia di età 30-34 anni, in particolare nella popolazione femminile. Nel 2016 è uscito dalla famiglia di origine il 78,4% delle donne contro il 65,1% degli uomini.
Come spiega bene l’Istat nel Rapporto, “alla necessità di formare una nuova famiglia attraverso le nozze, indicato come motivo principale di uscita dalla famiglia di origine prima dei 30 anni, si accompagnano nel corso dei decenni nuove motivazioni. Per gli uomini, che in oltre il 60% dei casi entro i 30 anni sono già usciti dalla famiglia di origine, la seconda motivazione prevalente è il lavoro. Inoltre, sono cresciuti i motivi di uscita per convivenza more uxorio o libera unione (22%), autonomia e studio (circa 14% ciascuno). Per le donne, il modello di uscita dalla famiglia di origine si distingue da quello maschile per il ruolo preponderante svolto dalla formazione della famiglia attraverso il matrimonio. Per le nate a partire dal 1977, con incidenza crescente, la seconda motivazione per uscire dalla famiglia di origine è la convivenza more uxorio. Inoltre, continua a crescere, da una generazione all’altra, l’importanza dei motivi di studio e della ricerca di autonomia e indipendenza”.
Quindi si esce più tardi di casa, ma spesso con un livello di istruzione superiore a quello degli anni passati. E questo elemento, unito alla crescita di domanda di lavoro qualificata da parte delle imprese, rappresenta un importante spinta, in termini di maggiore produttività, per il sistema economico.
Tuttavia, questa positività si tramuta sempre più spesso e sempre più diffusamente in una negatività. Accade infatti che se ad una offerta di lavoro qualificato non corrisponde una capacità di “assorbimento” adeguata da parte del mercato, quello che ne viene fuori è un mismatch tra domanda e offerta, con episodi di “over education”. Detto in parole semplici, è il caso di un giovane lavoratore che possiede un titolo di studio superiore a quello richiesto per svolgere o accedere a una determinata professione.
Secondo i dati, nel 2018, questa situazione ha interessato il 42,1% dei laureati 20-34enni occupati e non più in istruzione.
Il danno in termini economici e sociali di questa situazione è enorme.
Investiamo risorse economiche per formare i giovani, poi li assumiamo (quando va bene) non “utilizzando” le loro “skills” e così il circolo virtuoso dell’alta formazione che spinge la produttività facendo leva sull’innovazione viene interrotto.
Ma allora, siamo proprio sicuri che sono i più giovani ad essere dei “bamboccioni”….?!