Il 4 aprile Mattarella inizierà i colloqui con i Gruppi parlamentari. M5S e centrodestra alle prese con i numeri
Mercoledì 4 aprile inizieranno al Quirinale le consultazioni dei Gruppi parlamentari per arrivare alla formazione del nuovo Governo, che proseguiranno fino al pomeriggio di giovedì 5 aprile. Da ieri sera, dunque, c’è la certezza del momento in cui entrerà in gioco il Presidente della Repubblica e si passerà, di conseguenza, dalle schermaglie dialettiche tra i partiti all’esposizione delle loro posizioni sullo stallo determinato dall’assenza di maggioranze nelle due Camere.
Al netto di improvvise convergenze che possano maturare nelle pre-consultazioni (prassi tipica della Prima Repubblica) avviate dal Movimento 5 Stelle o nei contatti che i leader manterranno nei prossimi giorni, già da ora si può sostenere che difficilmente basterà un giro di colloqui a Sergio Mattarella per individuare un incaricato in possesso di numeri certi, e che non sarebbe sorprendente se al cospetto del Capo dello Stato si verificasse una ‘ritirata’ dei candidati premier più accreditati (Luigi Di Maio e Matteo Salvini), determinata dal rischio di fallimento che ne segnerebbe l’uscita dalla partita per Palazzo Chigi. Pertanto, rebus sic stantibus si annunciano lunghi i tempi per venire a capo della situazione.
Entrando nel merito delle singole posizioni, al momento tra i tre schieramenti principali di Palazzo Madama e Montecitorio uno (il Partito Democratico) non ha intenzione di partecipare al gioco poiché convinto che solo l’opposizione potrà risollevarlo dalla sconfitta del 4 marzo, mentre M5S e Centrodestra hanno scelto di approcciare la discussione fissando una serie di paletti su nome del Presidente del Consiglio e programma del prossimo Esecutivo che non tengono conto della loro comune posizione di minoranze vincitrici, e in quanto tali non autosufficienti.
Per quanto riguarda i pentastellati, l’arroccamento sulla posizione “O Di Maio a Palazzo Chigi o nulla di fatto” risponde alla consapevolezza di non potersi permettere in questa occasione intese simili a quella che ha portato all’elezione dei Presidenti delle Camere. Se infatti la conquista della terza carica dello Stato con Roberto Fico ha permesso al Movimento di giustificare i voti dati a Maria Elisabetta Alberti Casellati al Senato, i vertici grillini avrebbero grandi difficoltà a motivare ai propri sostenitori un patto di governo che veda la partecipazione più o meno diretta di Forza Italia. Di conseguenza, i frequenti riferimenti al 32% dei voti ottenuti alle Politiche e al confronto da avviare “sui nostri temi e non sulle poltrone” rientrano in una logica di difesa della ‘diversità politica’ dell’M5S, inevitabilmente intaccata dagli avvenimenti della scorsa settimana.
Dal momento che i seggi che separano il Movimento 5 Stelle dalla maggioranza in Parlamento sono ben 140 (90 a Montecitorio, 50 a Palazzo Madama), appare utopico ipotizzare che possa essere l’adesione disinteressata di intere schiere di parlamentari al suo programma a far sì che Luigi Di Maio succeda a Paolo Gentiloni. Al contrario, la nascita di un Esecutivo a trazione pentastellata (di lunga o breve durata che sia) passa necessariamente dall’intesa con un partner, che di fronte all’assenza di contatti con il Pd continua a rispondere all’identikit di Matteo Salvini.
Come nel pomeriggio del 23 marzo, quando erano in corso gli scrutini per le cariche istituzionali, l’uscita dei grillini dall’angolo negoziale in cui sembrano essere finiti passa da una rottura del segretario leghista con FI e Fratelli d’Italia. Tuttavia, è difficile immaginare che Salvini rompa la coalizione di cui è diventato leader (con tutte le conseguenze del caso, a partire dalle fine delle amministrazioni locali) pur di ricoprire il ruolo di socio di minoranza dell’M5S in un Governo dove, prima o poi, emergerebbe l’incompatibilità tra le filosofie alla base del reddito di cittadinanza e della flat tax.
Sul versante del centrodestra, sono invece nell’ordine dei 75 (50 alla Camera, 25 al Senato) i voti mancanti affinché Matteo Salvini divenga premier. Anche in questo caso, sembra velleitario pensare di superare l’ostacolo numerico con lo slogan “chiunque voglia sostenere il nostro programma è il benvenuto”, e al tempo stesso risulterebbe poco in linea con i risultati del 4 marzo puntare sull’arrivo di un gruppo di nuovi ‘responsabili’ per far partire la Legislatura. Pertanto, a meno che non cada il veto dei grillini nei confronti di Silvio Berlusconi e del suo partito (come si sosteneva poc’anzi, si tratterebbe di un evento dirompente), l’unica via politica che il centrodestra unito potrebbe percorrere per arrivare a Palazzo Chigi sarebbe quella di un’intesa con il Partito Democratico, in una riedizione a parti invertite delle larghe intese del 2013.
A onor del vero, l’Aventino su cui sono finora saliti i dem e la nuova egemonia della Lega sul campo conservatore riducono al lumicino le possibilità che un simile disegno veda la luce (il discorso sarebbe stato molto diverso se fosse stata Forza Italia la forza più votata dello schieramento, con Antonio Tajani candidato alla premiership), come del resto si evince dalle ripetute dichiarazioni del leader leghista sulla sua indisponibilità a “stare al Governo con Renzi e Boschi”. In questo senso, non va sottovalutata la portata di alcune tra le ultime sortite di Salvini, come “io premier? Non è o me o la morte” oppure “o parte un Governo o si va subito al voto”; affermazioni, che da un lato lasciano capire come il segretario del Carroccio sia consapevole che questa non sarà l’ultima occasione in cui darà le carte per l’intero centrodestra e, dall’altro, rendono palese che un ritorno alle urne sarebbe ipotesi gradita, perché gli darebbe l’occasione di portare a compimento l’Opa lanciata su Forza Italia e conquistare Palazzo Chigi alle sue condizioni.
Fin qui le riflessioni che è possibile condurre dinnanzi al contesto attuale, sempre tenendo in considerazione che la soluzione per dare vita a una maggioranza parlamentare di qualsiasi tipo passa o dalla scomposizione di uno dei tre blocchi esistenti o dall’unione tra due di essi. A partire dal 4 aprile si inizierà quindi a fare sul serio, e da lì in poi quelle che ora vengono considerate certezze potrebbero venir meno in ogni momento, tanto che nessun epilogo (dalla nascita di un Esecutivo di scopo fino a una nuova convocazione elettorale) può essere scartato a priori. Senza alcun dubbio, più i partiti non saranno disposti a rinunce e compromessi più sarà arduo il compito che attende il Presidente della Repubblica.