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Ha rappresentato la pietra di inciampo del secondo esecutivo guidato da Giuseppe Conte e la battaglia dell’Armageddon tra lo stesso premier e Matteo Renzi. Nonostante ciò, nella notte del 12 gennaio scorso, un governo che da li a poco sarebbe franato come su di un campo di calcio saponato, ha dato il via libera al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, Recovery fund per gli amici.
Ed è così che, in 160 pagine, l’Italia si gioca il suo futuro. Con l’intento di riparare i danni economici e sociali immediati causati dalla recente crisi pandemica, il PNRR rappresenta l’ultima chiamata per lasciare in eredità alle prossime generazioni un’idea di nazione più verde, digitale e pronta a combattere e sfide dei prossimi anni. Le aspettative (come gli appetiti) sono alte, ed è giunto il momento che la politica sia responsabile (a costo di poggiarsi, dicono, proprio sui “responsabili”).
Con un programma totale di 310 miliardi di euro (oltre agli aiuti comunitari da 210 miliardi vanno aggiunti anche i 13 miliardi del programma React Eu per l’emergenza sanitaria, i 7 miliardi di fondi strutturali europei e gli 80 miliardi di risorse programmate per il prossimo quinquennio 2021-2026), il PNRR costituirà il più ingente pacchetto di misure di stimolo mai finanziato dall’Unione europea finalizzato a rialzare il Paese dopo la pandemia di Covid-19. Se la politica lo permetterà.
Le risorse derivanti dal tanto discusso Recovery fund allocate nelle sei missioni del PNRR sono pari a circa 210 miliardi di euro. Di questi, 144,2 miliardi finanziano “nuovi progetti” mentre i restanti 65,7 miliardi sono destinati a “progetti in essere” che riceveranno, grazie alla loro collocazione all’interno del Piano, una significativa accelerazione dei profili temporali di realizzazione e quindi di spesa.
Il primo 70% delle sovvenzioni verrà impegnato entro la fine del 2022 e speso entro la fine del 2023. Il piano prevede inoltre che il restante 30% delle sovvenzioni sarà speso tra il 2023 e il 2025. Nei primi tre anni, la maggior parte degli investimenti e dei “nuovi progetti” sarà sostenuta da sovvenzioni. Nel periodo 2024-2026, viceversa, la quota maggiore dei finanziamenti per progetti aggiuntivi arriverà dai prestiti.
Le sei missioni coprono l’intero fabbisogno dello Stato, dalla transizione ecologica (67 miliardi) alla digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura (45 miliardi), passando per la crescita delle infrastrutture (32 miliardi), istruzione e ricerca (26 miliardi), inclusione e coesione (21 miliardi) e salute (18 miliardi).
Diverse e tutte estremamente attuali le iniziative contenute all’interno delle sei famiglie: riguardo alla sostenibilità ambientale (il settore che in assoluto beneficia della maggiore fetta di aiuti) salta all’occhio l’aumento della quota di energia prodotta da fonti di energia rinnovabile, la costruzione di infrastrutture di rete e smart grids insieme a cospicui investimenti nella filiera dell’idrogeno e del c.d. “acciaio verde”.
Anche sull’innovazione i traguardi sembrano altrettanto ambiziosi, fosse non solo riguardo alla brama di rendere la PA più digitale semplificando i procedimenti amministrativi riducendone, di conseguenza, tempi e costi. Non secondario, in questo ambito, la realizzazione di una rete efficiente e capillare a Banda larga e del 5G. Nel campo dell’istruzione spicca l’impegno ad aumentare l’offerta di asili nido e dei servizi per l’infanzia, con l’obiettivo di favorirne una distribuzione equilibrata sul territorio nazionale. Capitolo sanità dedicato al rafforzamento sia del sistema ospedaliero sia, in particolare, della rete dell’assistenza territoriale, insieme ad un poderoso piano improntato sulla salute digitale (leggi telemedicina).
Tutto bene dunque? Sembra di no. Tra crisi di governo, rimpasti e “responsabili-costruttori-transfughi” mentre a Roma si discute, Sagunto (dal virus) viene espugnata.