Rispetto alla proposta del 2013 presentata in Senato dal M5S, il decreto che istituisce il reddito di cittadinanza differisce sotto diversi punti di vista, che allontanano quanto approvato dall’idea originaria. Forse perché la realtà di governo impone riflessioni non prevedibili in campagna elettorale?
di Alessandro Alongi
Al grido di «Nessuno deve rimanere indietro!» uno stuolo di 50 senatori, ovvero l’intero gruppo del Movimento 5 Stelle, presentava nell’emiciclo di Palazzo Madama quello che da li a breve sarebbe diventato il cavallo di battaglia della futura compagine di governo: siamo nell’ottobre 2013 e il disegno di legge intitolato “Istituzione del reddito di cittadinanza nonché delega al Governo per l’introduzione del salario minimo orario” è il n. 1148. «Uno Stato, il cui scopo è prendersi cura dei cittadini che ne fanno parte, non deve lasciare nessuno indietro» è la premessa etica sulla quale si basa un articolato lungo 20 disposizioni. È da li che bisogna partire per comprendere come si sono tradotti (o infranti), nella dura realtà di governo, i sogni del popolo grillino in merito al tema della lotta alla povertà, al salario minimo orario (9€ l’ora) e al diritto all’abitazione, questi ultimi due argomenti, in particolare, dimenticati dal decreto-legge che ha istituito il Reddito di cittadinanza e la c.d. “Quota 100”.
Nella proposta di legge il Rdc – a livello ideale, futuro e auspicabile – è concepito come uno strumento «universale, individuale e incondizionato, ossia destinato a tutti i residenti adulti a prescindere dal reddito e dal patrimonio, non condizionato al verificarsi di condizioni particolari e non subordinato all’accettazione di condizioni». Auspici troppo aulici, smentiti facilmente cinque anni dopo.
Già nel 2013 la realtà aveva superato la fantasia per cui – analogamente ad oggi – il sussidio veniva riconosciuto ai nuclei familiari tenendo conto di diversi parametri. Il reddito minimo pensato per dare a tutti una vita dignitosa veniva fissato in una cifra che in nessun caso doveva essere inferiore a 9.360 euro netti annui, ovvero 780€ mensili (art. 3, comma 3 del ddl), cifra da rivalutare anno per anno. Ma cinque anni dopo il film appare diverso: non solo la cifra di 9.360€ non è più un’asticella in deroga alla quale non si può andare (e tantomeno rivalutare), ma essa può decrescere sino ad arrivare a 480€. La differenza tra il dire è il fare, in tale ambito appare piuttosto netta, a partire proprio dalla modifica del linguaggio usato: dal «in ogni caso, non può essere inferiore al reddito annuo di 9.360 euro netti» nella proposta del 2013 a «in ogni caso non può essere complessivamente superiore ad una soglia di euro 9.360 (seppur moltiplicato per il fattore di equivalenza)» nel decreto approvato. Lontano, dunque, il sogno dei 780€ mensili: un single, con casa di proprietà, potrà beneficiare di una cifra massima di 500€ al mese. Secondo le ultime stime, si calcola che potrebbero ricevere il Rdc 1,7 milioni di famiglie, per un totale di quasi 5 milioni di persone, ovvero una media di 98€ al mese, tenendo conto dei fondi stanziati per l’anno corrente pari a 5,9 miliardi. Cifre ben lontane dalle previsioni e che potrebbero ulteriormente diminuire. L’inciso dell’art. 12 del decreto parla chiaro: qualora le domande fossero troppe la cifra complessiva stanziata non cambierà, si ridurranno soltanto gli importi.
In relazione ai beneficiari, nel 2019 si allarga la platea contrariamente ad un approccio più restrittivo riscontrabile nella proposta del 2013: un lustro fa i soggetti beneficiari sarebbero dovuti essere, oltre ai cittadini italiani, anche quelli europei, insieme a quelli provenienti da Paesi che avevano sottoscritto convenzioni bilaterali di sicurezza sociale. Nell’attualità, invece, la platea si estende, sino a ricomprendere i residenti in Italia da almeno 10 anni (art. 2, co. 1), un allargamento non di poco conto con buona pace dei leghisti che assisteranno impotenti a 259.000 stranieri beneficiare del reddito di cittadinanza.
Diversa, ancora, la durata della misura, temporalizzazione che il governo giallo-verde ha dovuto necessariamente prendere in considerazione una volta al governo: nella proposta a cinque stelle del 2013 il reddito di cittadinanza è erogato sine die, ovvero sino a quando il beneficiario si fosse trovato in condizioni di povertà (art. 8 ddl). Nella più realistica previsione approvata dal Consiglio dei ministri il 17 gennaio il sussidio ha una durata ben stabilita, ovvero 18 mesi, rinnovabili.
Sulle modalità di erogazione del sussidio, nel 2013 i senatori del Movimento sembravano restii al pagamento del sostegno su una carta magnetica, criticando la base stessa di tale modus operandi nato nel 2008 («l’introduzione della carta acquisti non ha costituito e non costituisce un intervento adeguato alla situazione di grave emergenza sociale») e, di conseguenza, proponevano il pagamento del Reddito in contanti presso qualsiasi ufficio postale o con accredito su conto corrente. Nella versione di oggi, come noto, assistiamo ad un “ritorno alle origini”, con la corresponsione della somma riconosciuta al nucleo familiare versata direttamente sulla “Carta Rdc”, con possibilità di prelievo sino a 100€ al mese. Incidente diplomatico, invece, sulla possibilità di spendere parte del reddito in acquisti “immorali” come il gioco d’azzardo: leggendo il decreto pare sia possibile strisciare la tessera anche per una partita alle slot machine, mentre nelle slide presentate dal Governo tale possibilità pare preclusa. Sul punto, più sobriamente, il progetto di legge del 2013 tace.
Parzialmente diverso, infine, il ruolo svolto dal percettore del Rdc nei confronti del mercato del lavoro: nel decreto approvato, il richiedente del sussidio firmerà un “patto per il lavoro” che si svilupperà tramite percorsi formativi, ricerca attiva di un lavoro e l’accettazione di tre proposte “congrue”, una delle quali anche a migliaia di km da casa. Nelle idee del 2013 i beneficiari dovevano limitarsi a «fornire immediata disponibilità al lavoro presso i centri per l’impiego territorialmente competenti», imboccando un percorso di accompagnamento all’inserimento lavorativo. Si decadeva dal beneficio se si fossero sostenuti più di tre colloqui con palese volontà di ottenere un esito negativo, ovvero qualora fosse stata rifiutata la terza offerta di lavoro consecutiva ritenuta congrua, intendendosi con tale definizione la proposta lavorativa oltre i 50 chilometri dalla residenza del soggetto (e raggiungibile a meno di 80 minuti con i mezzi pubblici, art. 12, co. 2 ddl). Nella nuova formulazione del 2019, la “congruità” si estende a 100km per le proposte professionali entro il 6° mese di sussidio, 250 km oltre il 6° mese, con possibilità di estensione all’intero territorio nazionale dopo il 18° mese (art. 4, co. 9). Previsioni ben lontane, quindi, dagli 80 minuti di autobus o treno immaginati solo cinque anni fa.