La candidata grilllina è l’incumbent, la sfidante da battere. Tipicamente, gli incumbent, sono avvolti in una posizione di croce e delizia: essendo già noti all’elettorato non devono riversare grosse risorse nella fase della strategia d’immagine e di storytelling, così come non è necessario spendere grosse cifre di denaro alla voce cartellonistica: la città non ha bisogno né di abituarsi al tuo volto, né tantomeno al tuo nome. Tutti ti conoscono già.
Allo stesso tempo, però, gli incumbent devono allontanare quella affascinante voce del cambiamento che di solito fanno rimbombare, nelle vie della città, i nuovi avversari. I quali, sovente, sono cantautori di una narrazione di discontinuità nei confronti dell’amministrazione in carica.
La differenza, banalmente, la fa il bilancio del mandato. Se questo è positivo, allora l’incumbent sarà già a metà dell’opera e dovrà limitarsi a difendere la propria roccaforte. Addirittura, se il consenso popolare è particolarmente alto – sopra il 50% – può opzionare la strategia della rose garden strategy (Jamienson 1996) ovvero restare nel proprio palazzo, non esporsi al gioco comunicativo e propagandistico, e limitarsi a restare in un cono d’ombra fatto di consapevolezze poggiate sulla certezza di avere dalla propria parte la maggior parte dell’elettorato.
È scontato dire che nell’epoca corrente, quella della postmodernità, declinata su un carattere ongoing delle campagne elettorali, divenute permanent (Blumenthal 1980), la strategia delle rose non è quasi mai applicabile. Difficilmente, infatti, gli incumbent riescono a presentarsi alla nuova tornata con un gradimento popolare elevato. Questa è sicuramente la situazione che coinvolge Virginia Raggi.
Quando succede questo, gli incumbent non possono limitarsi a trasformare il voto in un referendum sul proprio operato, perché perderebbero. Devono, quindi, trovare nuove storie da narrare e nuove ricette da proporre. Trovare, perciò, un giusto mix tra il ricordo dei successi ottenuti e la proposta di nuovi obiettivi da raggiungere insieme.
L’inclusività, il noi, è essenziale. È importante, infatti, coinvolgere l’elettorato nell’opera di proseguo amministrativo, bisogna riecheggiare i ricordi che portarono alla mobilitazione 5 anni prima ed offrire nuovi stimoli per riattivare e rimobilitare quell’elettorato. Un copione evidente, per esempio, da questo post nel quale viene esposta una issue propria del suo personaggio politico Raggi e del Movimento 5 Stelle: il clima.
La Sindaca ha optato per un timing d’attesa: un po’ di ritardo rispetto a quello dei suoi avversari, la sua comunicazione si sta intensificando solamente adesso. Il motivo è collegato a quanto detto sopra: non ha nessuna esigenza di farsi conoscere, è già nota. Questo l’ha messa nelle condizioni di potersi palesare con un ritardo ragionevole. Anzi, proprio quel ritardo è parte integrante della strategia, l’intento è far instillare la sensazione che mentre tutti si arruffano nell’agone della lotta mediatica, lei ne è rimasta fuori troppo impegnata ad amministrare la città.
Ricordare i successi ed offrire nuovi stimoli. Questo il leitmotiv tipico di un incumbent e questo sta facendo, principalmente, Virginia Raggi. Lo si evince anche dal claim scelto per la campagna: avanti con coraggio. Questo slogan enuclea le 7 caratteristiche principali che un messaggio dovrebbe avere (Grandi e Vaccari 2013): semplicità; inclusività; narratività; emotività; contrasto; coerenza; credibilità.
Il senso è quello della necessità dell’andare avanti in una grande narrazione che ha una palese continuità con l’elezione ottenuta nel 2016, quando il claim fu “coRAGGIo” approfittando di un forte vento di cambiamento che soffiava – sull’Italia tutta – contro i partiti mainstream.
Quel coraggio non si ferma, vuole dire la Raggi, rammentando l’importanza dell’andare avanti e ragguagliando – il suo zoccolo duro – circa la drammaticità di un eventuale ritorno indietro. Altro elemento comunicativo è l’assenza del simbolo del Movimento 5 Stelle, un tentativo di personalizzare il voto: la Sindaca chiede di votare per lei, non per un partito.
Gli attacchi agli aversari sono pochi ed equilibrati. Col PD non si può esagerare, per ovvi motivi. Allora la valvola di sfogo, la costruzione del nemico, avviene soprattutto intorno al centrodestra. Specialmente la Lega, nominata spesso come Lega Nord. Un frame cognitivo attraverso il quale vuole provare a far risuscitare la paura per la Lega regional-populista e anti romana. Quella bossiana. Un tentativo che, però, nel 2021, appare pressoché prosaico e fuori tempo.
Negli ultimi giorni, infine, ha potuto giovare dell’affiancamento partecipato di Giuseppe Conte. Sappiamo come la ricandidatura di Virginia Raggi sia stata parecchio dibattuta all’interno delle camere segrete pentastellate, l’investitura del neo presidente Conte rappresenta per lei – in questo senso – un aspetto non di poco vista la differenza che è capace di fare il fattore Conte: a luglio una sua lista avrebbe raddoppiato – secondo i sondaggi SWG – le percentuali del M5s. Oggi, proprio i 5s, sotto l’effetto Conte, stanno vivendo una fase di ripresa dopo mesi di picchiata.
Questo non vuol dire che Raggi potrà godere di una diretta ed inevitabile esternalità positiva con Conte al suo fianco. Magari la politica fosse un gioco così matematicamente banale. Ma certamente meglio averlo amico che nemico, vista l’incisività che ha tra l’elettorato grillino.