Avviata una consultazione aperta a imprese e sindacati. Eurostat conferma profonde diseguaglianze salariali tra gli Stati membri dell’Ue
“Mi batterò per l’introduzione di un salario minimo in ogni Paese della Ue”. Così tuonava, all’epoca, l’allora candidata alla Presidenza della Commissione europea davanti all’Europarlamento, anteponendo l’impegno sul salario equo persino a quello sul contrasto al cambiamento climatico.
A due mesi dall’entrata in carica della nuova Commissione di Ursula Von der Leyen, per ora, di concreto, sul salario europeo, c’è solo un documento: niente di più che una consultazione aperta alle parti sociali – peraltro obbligatoria su di un tema di politica sociale, in cui rientra, a pieno titolo, anche la discussione sui salari minimi equi per i lavoratori dell’UE – allo scopo preventivo di orientare la questione, prima di perseguire una possibile azione specifica da parte dell’Ue.
Ed è proprio su un corretto inquadramento del tema che è necessario fare chiarezza, prima ancora di aprire una riflessione sui salari minimi in Europa: quella dell’Unione si classifica infatti come un’azione politica di supporto e completamento a quella degli Stati membri. E questo vuol dire che esula dalle competenze attribuite all’Unione la possibilità di introdurre un salario minimo uguale per tutti i Paesi, non potendo l’Ue interferire nel processo decisionale nazionale, se non con un ruolo di stimolo alla discussione.
In realtà, come avevamo anticipato in queste pagine già prima della tornata elettorale europea, spetta ai Governi dei singoli Stati membri il ruolo da protagonista nella definizione delle politiche sociali e di occupazione, e, in particolare, nella decisione sulle politiche salariali. Motivo per cui, anche volendo, la Commissione non potrebbe imporre l’istituzione di un salario minimo a quei Paesi – come l’Italia – in cui non è previsto.
A venire in aiuto alle limitate competenze dell’Unione in materia di retribuzioni è però il pilastro europeo dei diritti sociali, i cui principi sanciscono – tra gli altri – il riconoscimento ai lavoratori di tutti gli Stati appartenenti all’Ue di una retribuzione equa e di un tenore di vita dignitoso.
Sulla base del pilastro sociale, proclamato dalle istituzioni e dai leader dell’UE nel novembre 2017 e richiamato espressamente nella sua comunicazione, la Commissione europea ha “giustificato” la propria azione, guidata dall’obiettivo di garantirne una piena attuazione da parte degli Stati membri e di tutte le parti interessate.
Gli ultimi dati Eurostat sul salario minimo in Europa, appena pubblicati, confermano la disparità nelle retribuzioni minime tra gli Stati membri (si va dai 600 euro nei paesi dell’Est Europa ai 1500 del Nord Ovest), con il concreto rischio di dumping sociale e salariale. Senza considerare quei Paesi Ue, come il nostro, che il salario minimo non ce l’hanno proprio.
La consultazione sui salari minimi equi, promossa dalla Commissione, nasce quindi dal desiderio che tutti i lavoratori dell’Unione possano disporre di salari adeguati, che consentano loro di vivere in modo dignitoso ovunque essi lavorino, sotto forma di un invito a tutti i partner europei a presentare le proprie opinioni e i relativi progetti per raggiungere, in tempi brevi, gli obiettivi prefissati dal pilastro. Se la risposta sarà positiva, l’ultimo step sarà quindi la redazione di un piano d’azione che terrà conto di tutti i contributi e che sarà sottoposto ad approvazione al più alto livello politico.
E questo, proprio mentre in Spagna, nelle ultime ore, è stato approvato, con effetto retroattivo a partire dal 1 gennaio, l’aumento – e non è il primo – del salario minimo per circa due milioni di lavoratori. Si accettano scommesse sulla riapertura del dibattito, sulla scia dell’esempio spagnolo, anche in Italia. Con buona pace dei sindacati.