Fine di un partito mai nato. E anche il Governo è a rischio
Tutti sconfitti e più deboli, in Parlamento e nel Paese. Questo è l’unico risultato chiaro di una domenica, quella dell’Assemblea Pd appena celebrata, segnata da confusione, tatticismi e polemiche mascherate da inviti a evitare la scissione.
Lo strappo che pare essersi consumato definitivamente nel Partito Democratico indebolisce in primis il segretario Matteo Renzi, che in quanto leader di una comunità politica con radici nel secolo scorso porta con sé la responsabilità di non essere stato in grado di anteporre il bene della casa comune alla sua figura. Negli oltre tre anni trascorsi alla guida del Pd, l’ex premier ha dato più volte dimostrazione di non aver compreso che in un grande partito governare è cosa ben diversa dal comandare, e che la presenza di un’opposizione interna non è un atto di “lesa maestà” ma un segno di vitalità dell’organizzazione che si è chiamati a guidare. Anche nei suoi ultimi appelli in favore dell’unità Renzi non ha rinunciato a lanciare stoccate ai suoi contestatori, fino alla frase che più di ogni altra testimonia la sua scarsa volontà di evitare la rottura: “Scissione è una brutta parola, ma ricatto è ancora peggiore”, con il termine ricatto usato per definire le richieste della minoranza in merito ai tempi del Congresso. Se a fronte di quanto accaduto l’ex premier fosse addirittura soddisfatto – come riportato da vari retroscena – di aver diviso il fronte dei suoi avversari, saremmo di fronte a un comportamento in pieno stile “House of cards”.
La situazione non è certo migliore per gli “scissionisti”, spinti quasi esclusivamente dall’opposizione (personale ancor prima che politica) al segretario e già incerti sui passi da intraprendere, al netto dei folcloristici richiami alla “rivoluzione socialista” e alle “bandiere rosse”. Dopo aver a lungo portato avanti un’opera di interdizione senza sconti (quando non aprioristica) a Matteo Renzi, la minoranza bersanian-dalemiana sta abbandonando il campo nel momento di maggior debolezza del segretario, consentendo ai renziani di sostenere che l’addio non sarebbe da attribuire a divisioni sulla linea del partito, ma alla certezza di non poter vincere il Congresso Pd previsto per il mese di maggio e al timore di rimanere ai margini della composizione delle future liste elettorali. Il risultato delle continue contestazioni mosse dai fautori della scissione alle proposte di Renzi su elezioni e primarie dem è stato quello di aver trasmesso l’impressione che al centro della questione ci sia il risentimento nei confronti di un “usurpatore” che non intende farsi da parte, dal momento che non è pensabile che questioni di calendario possano portare all’implosione di un partito. Resta da vedere, poi, cosa possa unire personalità differenti come quelle di Roberto Speranza, Enrico Rossi e Michele Emiliano, quest’ultimo ancora oggi segnalato in dubbio sul da farsi.
Ma, com’è ovvio, è il Partito Democratico nella sua interezza a uscire gravemente danneggiato dalla giornata del 19 febbraio, che potrebbe aver sancito la fine dell’idea che portò nel 2007 Walter Veltroni (il cui appello a non tornare al passato sembra essere caduto nel vuoto) e altri dirigenti del centrosinistra a dare vita a una forza politica riformista, in grado di poter governare a lungo il Paese. Nei suoi 10 anni di vita, tuttavia, il Pd non è stato altro che la somma di correnti l’un contro l’altra armate, capaci più di logorare i propri leader che di costruire una classe dirigente. Il personalismo di Matteo Renzi arriva al termine di scontri mai risolti, e non ha fatto altro che accelerare una disgregazione che prima o poi avrebbe comunque avuto luogo. Nulla sarà più come prima al Nazareno, e in questo momento la prospettiva di perdere il controllo di due Regioni (Toscana e Puglia, amministrate da Rossi ed Emiliano) sembra quasi un dettaglio.
In ultimo luogo, è ora più precario lo stato di salute del Governo, dal momento che nei prossimi giorni la forza di maggioranza relativa in Parlamento dovrebbe perdere un rilevante numero di parlamentari (in base alle prime stime, circa 40 deputati e 15 senatori sarebbero pronti a lasciare). Nonostante gli scissionisti assicurino il loro sostegno (seppure provvedimento per provvedimento) a Paolo Gentiloni fino al 2018, non è da escludere che la rottura interna al Partito Democratico possa mettere a rischio la Legislatura e aprire nuovamente le porte a un ritorno al voto a giugno o, al più tardi, a settembre. Le elezioni anticipate sono ancora l’ipotesi preferita da Renzi, ed è possibile che le opposizioni favorevoli alle urne anticipate (Lega e M5S in testa) approfittino della situazione per mettere in minoranza l’Esecutivo e chiedere una verifica della maggioranza nelle Camere. Se così fosse, tutto potrebbe succedere.