Mentre la scrivania che fu di De Sanctis, Croce e Gentile attende ospiti più degni di quelli che l’hanno occupata negli ultimi lustri, negli istituti, riaperti a macchia di leopardo, l’orchestrina del Titanic si cimenta con il concerto di uno strumento solo. Uno, due, tre, quattro volte: è un dedalo di campanelle che, a partire dalle ore 8 e senza soluzione di continuità, scandisce gli infiniti turni del convento o, se si preferisce, della caserma-scuola, visto che non sciama al suo ingresso la moltitudine caotica di studenti e studentesse, ma un’anonima schiera di intruppati pronti a occupare sedia e banco (a rotelle o meno), nel perimetro carcerario di una mattonella.
Ora che i più ottimisti decantano le magnifiche sorti e progressive della scuola fifty-fifty (50% in classe, l’altro 50% a casa), docenti e alunni provano ad adattarsi a quella che non è neanche parvenza di normalità, ma precarietà gelida, come le aule dalle finestre aperte. Certo, ora che c’è qualche mano che si alza, lì all’ultimo posto, nelle retrovie delle classi popolate a metà, ci si illude che possa tornare ad accendersi non già il fuoco della riconquistata socialità, ma almeno il bagliore di qualche rediviva passione, che – nonostante tutto – gli insegnanti hanno provato a non spegnere durante i mesi di quell’ossimoro didattico che è l’insegnamento a distanza.
Come capita per ogni cosa umana che si apprezza sempre quando manca, anche i cantori dei luoghi comuni più triti e ritriti sulla scuola, sul ruolo dei docenti, sul senso della lezione frontale hanno dovuto ricredersi, e non solo per restituire la dignità e la professionalità a legioni di professori e professoresse che in questi mesi hanno dato tutto e di più, supplendo alle carenze e all’inadeguatezza di chi, nelle confortevoli sale ministeriali, avrebbe dovuto cianciare meno e organizzare di più.
Intanto, nelle more dell’emergenza, percentuali, algoritmi e alchimie ispirano la composizione degli scaglioni, dei sommersi e dei salvati che, a seconda delle sensibilità, rientrano nel novero di chi rimane a casa e di chi si avventura in aula. La sensazione è di trovarsi nella terra di nessuno: hic sunt leones. Per alcuni meglio di niente. Per altri, peggio di prima, con studenti terrorizzati e docenti costretti a funambolici espedienti didattici, sospesi a metà tra spiegazioni e verifiche a corrente alternata.
Nel frattempo, però, si staglia all’orizzonte l’ennesima soluzione: la scuola on demand, sperimentata dalle ordinanze pugliesi ed esportata febbrilmente come la nuova frontiera dell’istruzione di consumo, esercitata su richiesta dell’utente. Alle famiglie si chiede cioè di scegliere se preferire la presenza o la distanza: un’opzione in linea con lo spirito dei tempi se non fosse altro per l’assunto commerciale che vi balena – più o meno surrettiziamente – per il quale dove non convenga seguire le lezioni in classe sia possibile farlo, per comodità o risparmio, a casa.
Dalla DAD alla DOD passando per la DID: l’acronimo è servito, come impone il siglario portatile dell’istruzione abbreviata. Il tempo-vita dell’acrostico, si sa, è effimero e si indovina dunque l’imminente ricambio nella scala gerarchica della fuffa in pillole. Ma l’emergenza può essere utile anche a questo: a dare la stura alla fantasia, illimitata e istrionica – lo sappiamo – specie quando a esercitarla ai danni della scuola sono tutti fuorché quelli che la conoscono.
Giuseppe Iannaccone, docente e storico della letteratura