Tornano al centro del dibattito i dati personali utilizzati per erogare i servizi della società dell’informazione, con la vexata questio se le informazioni degli utenti abbiano o meno un valore economico.
In un recente provvedimento dell’Antitrust, il guardiano della concorrenza ha acceso un faro sull’utilizzo delle informazioni che gli utenti rilasciano (o sono costretti a rilasciare, pena l’impossibilità di utilizzo del servizio) ai giganti del web, un tesoro di notizie utili alle tech companies per profilare chi sta dall’altra parte dello schermo o smanetta su un telefono, potendo in tal modo offrire alla clientela servizi sempre più adatti alle proprie esigenze, con conseguente aumento dei profitti.
Se a tutto ciò si aggiunge la scarsa chiarezza (o addirittura l’omissione) delle giuste informazioni allora la frittata è fatta.
Con questa motivazione la scorsa settimana l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha chiuso due istruttorie nei confronti di Google e di Apple, sanzionando entrambe le società per 10 milioni di euro, accertando che i due giganti tech non hanno fornito informazioni chiare e immediate sull’acquisizione e sull’uso dei dati degli utenti a fini commerciali.
Che i dati costituiscano la nuova fonte di redito nell’ecosistema digitale è ormai assodato. Google fonda la propria attività economica sull’offerta di un’ampia gamma di prodotti e di servizi connessi a Internet basata anche sulla profilazione degli utenti ed effettuata grazie ai loro dati. I ricavi provenienti dai servizi pubblicitari, che derivano dallo svolgimento di attività di profilazione, infatti, costituiscono la fonte principale del fatturato del gigante di californiano.
Apple non è da meno, raccogliendo, profilando e utilizzando a fini commerciali i dati degli utenti attraverso l’utilizzo dei suoi dispositivi e dei suoi servizi. Quindi, pur senza procedere ad alcuna cessione di dati a terzi, Apple ne sfrutta direttamente il valore economico attraverso un’attività promozionale per aumentare la vendita dei propri prodotti (o di quelli di altri) attraverso le proprie piattaforme commerciali App Store, iTunes Store e Apple Books.
In tale contesto, l’Antitrust ha ritenuto esistente un rapporto di consumo tra gli utenti e i due operatori, anche in assenza di esborso monetario, la cui controprestazione è rappresentata dai dati che essi cedono utilizzando i servizi di Google e di Apple.
Entrando nello specifico delle contestazioni, Google, sia nella fase di creazione dell’account (indispensabile per l’utilizzo di tutti i servizi offerti), sia durante l’utilizzo dei servizi stessi, secondo l’authority di Piazza Verdi, omette informazioni rilevanti di cui il consumatore ha bisogno per decidere consapevolmente di accettare che la Società raccolga e usi a fini commerciali le proprie informazioni personali. A nulla sono valse le eccezioni sollevate dal celebre motore di ricerca, ovvero in merito alla competenza dell’istruttoria che, secondo la società fondata da Larry Page e Sergey Brin, sono da attribuire per intero al Garante privacy, accusa rispedita al mittente dagli uomini di Roberto Rustichelli rilevando, nello specifico, che non sussiste un conflitto tra la tutela della concorrenza e quella dei dati personali, in quanto esse si integrano in maniera complementare (cosa peraltro chiarita anche dal Consiglio di Stato in una sua recentissima sentenza).
Apple, analogamente, sia nella fase di creazione dell’ID Apple, sia in occasione dell’accesso agli Store della mela morsicata, non fornisce all’utente in maniera immediata ed esplicita alcuna indicazione sulla raccolta e sull’utilizzodei suoi dati a fini commerciali, enfatizzando solo che la raccolta dei dati è necessaria per migliorare l’esperienza del consumatore e la fruizione dei servizi.
Con la seconda pratica oggetto di censura, l’Autorità ha accertato che le due società hanno attuato una pratica aggressiva. In particolare, nella fase di creazione dell’account, Google pre-imposta l’accettazione da parte dell’utente al trasferimento o all’utilizzo dei propri dati per fini commerciali (c.d. opt-out, vale a dire senza prevedere la possibilità di scelta preventiva ed espressa dell’utente in merito alla cessione dei propri dati). Questa pre-attivazione consente il trasferimento e l’uso dei dati da parte di Google, una volta che questi vengano generati, senza la necessità di altri passaggi in cui l’utente possa di volta in volta confermare o modificare la scelta pre-impostata dall’azienda.
Nel caso di Apple, invece, l’attività promozionale è basata su una modalità di acquisizione del consenso all’uso dei dati degli utenti a fini commerciali senza prevedere per il consumatore la possibilità di scelta preventiva ed espressa sulla condivisione dei propri dati. Questa architettura di acquisizione, predisposta da Apple, non rende possibile l’esercizio della propria volontà sull’utilizzo a fini commerciali dei propri dati. Dunque, il consumatore viene condizionato nella scelta di consumo e subisce la cessione delle informazioni personali, di cui Apple può disporre per le proprie finalità promozionali effettuate in modalità diverse.