Correva l’anno 2015, quando lo storico e intellettuale israeliano Yuval Noah Harari, pubblicò un bel saggio, dal titolo “Homo Deus”, ovvero l’Uomo-Dio. In quel libro, attraverso un’interessante analisi storica, si avanzava l’ipotesi di una prossima sostituzione dell’umanità, grazie alle nuove tecnologie, con un super-uomo, un Homo Deus appunto, capace di vincere la morte.
Contemporaneamente si analizzava anche il prezzo da pagare per questo passaggio: un prezzo decisamente alto, che comprendeva la fine della cultura umanista, cioè di quella che, dai tempi di Omero, è la base fondante della nostra civiltà.
Nel 2018, nella sua successiva opera “Ventuno lezioni per il ventunesimo secolo”, Harari indicava poi la possibilità, sempre più prossima, di hackerare non più i nostri dati, bensì direttamente la nostra persona, condizionandola, controllandola attraverso processi algoritmici, capaci di creare una nuova e terribile dittatura informatica, tale da fare impallidire ogni sistema di controllo dittatoriale sinora conosciuto dalle società umane. Di queste sue riflessioni è facile trovare stralci sul web.
Le riflessioni di Harari fanno parte di un ampio dibattito in corso, da diversi anni, sull’intelligenza artificiale, sulle sue potenzialità e i suoi rischi. Un dibattito che sembra basato su ipotesi da film di fantascienza – penso a opere come “Blade Runner”, “Gattaca”, “Matrix”, “Minority Report” – ma che, via via che le innovazioni tecnologiche hanno reso sempre più effettive le ipotesi avanzate in quei film, è passato dalle fantasie dei romanzieri alle concrete analisi di numerosi intellettuali, scienziati, filosofi, storici, politologi.
All’uscita dei suoi saggi, Harari fu salutato come uno dei più lucidi, profondi e interessanti intellettuali dei nostri tempi, con i media di tutto il mondo che, per anni, hanno fatto a gara per accaparrarsi un suo contributo e per farsi spiegare dalla sua viva voce i suoi timori e le sue teorie.
Curioso notare come quei timori e quelle teorie, nati in epoca precedente alla pandemia, risultino oggi molto simili ad alcune analisi che si possono ascoltare negli ambienti “No Pass”, fra attivisti che – da parte di quegli stessi media che esaltarono a suo tempo i libri e le teorie di Harari – vengono adesso definiti come negazionisti, neofascisti, complottisti e accusati, più o meno esplicitamente, anche di antisemitismo, per certi loro provocatori accostamenti fra Green Pass e Shoah.
Sono tutti termini che risulterebbero piuttosto bizzarri se, oltre che ai “No Pass”, fossero accostati anche a colui che può essere considerato una sorta di loro precursore e di loro “padre spirituale”, cioè quel Yuval Noah Harari, docente universitario, di religione ebraica e di fede politica dichiaratamente progressista.
Ne parlo come di un “padre spirituale” dei “No Pass”, anche perché il legame fra le scelte politico-sanitarie relative all’emergenza e il forte impulso che queste scelte stanno dando alle nuove tecnologie, all’informatizzazione di tutte le relazioni sociali, è – a detta di molti “No Pass” – un meccanismo che va proprio nella direzione della possibile nascita di quel condizionamento totalitario dell’intera umanità, profetizzato da Harari.
Un elemento, su cui forse non molti si soffermano, è infatti quello che il Green Pass – al di là delle polemiche nate in merito alla sua efficacia sanitaria e alla sua ipotetica incostituzionalità – è un sistema informatico di acquisizione dei dati. E’ un’App Immuni che ce l’ha fatta, come ha detto efficacemente qualcuno. Ed è questa, probabilmente, la “luna” da guardare, mentre in molti si concentrano sul “dito” della sua democraticità o della sua sensatezza sul piano medico.
Da oggi, col contributo del Green Pass, si crea infatti una società in cui anche andare al bar, o al ristorante, è qualcosa di tracciabile e di tracciato. E così avverrà per ogni nostro piccolo o grande gesto della vita quotidiana. Chi gestirà quei dati? E come? A questo si aggiunge il cosiddetto Recovery Plan, ovvero gli investimenti copiosi, che verranno presto utilizzati, in larghissima parte, nel settore dell’innovazione informatica.
Il Covid sta dunque accelerando un processo di digitalizzazione che finirà, via via, per affidare ad algoritmi impersonali la gestione delle nostre vite e delle nostre relazioni sociali. Cosa che già avviene nell’organizzazione interna di alcune società simbolo del nuovo millennio. Ad esempio, in società come Amazon, in cui ogni decisione, ogni attività, ogni avanzamento di carriera, è già oggi affidato agli algoritmi, ai dati tecnici, senza alcun significativo e determinante intervento umano.
Questo cambiamento, innanzi tutto, potrebbe creare un grosso problema per la democrazia. Che senso avrà, infatti, votare degli amministratori pubblici, quando le decisioni più importanti, relative alle scelte concrete, verranno comunque prese da un computer, in modo automatico, sulla base dei dati acquisiti attraverso un algoritmo?
C’è poi un rischio ancora più grave: quella che rischia di andare in crisi, con l’impulso dato all’intelligenza artificiale, è infatti tutta la cultura umanista, la plurimillenaria costruzione culturale della nostra società, basata sul pensiero critico e creativo. Una tipologia di pensiero che potrebbe a breve non essere più funzionale.
Per gestire un algoritmo, infatti, non servono pensatori, ma tecnici. Non servono artisti, Non servono filosofi. Non servono nemmeno scienziati. Tutt’al più ingegneri.
Se non è più il pensiero umano a dover analizzare e trovare soluzioni ai problemi della vita e del quotidiano – poiché quelle soluzioni sono già affidate all’analisi di un sistema informatico – il pensiero creativo, qualunque pensiero creativo, anche quello che ha portato alle scoperte della scienza, diventa disfunzionale e dunque da disincentivare, da sostituire col pensiero tecnico, acritico, che risolve problemi solo sulla base di schemi preimpostati.
Il mito fondante della nostra cultura occidentale è il mito di Ulisse. Cioè quello di un uomo posto dalla vita di fronte a continui problemi e che, proprio grazie al suo pensiero creativo, dunque fuori dagli schemi, grazie al suo ingegno, riesce ad affrontare e superare ogni difficoltà, riuscendo così a ritrovare la via di casa.
Che fine avrebbe fatto Ulisse, cioè la nostra civiltà, se a bordo della sua nave vi fosse stato un potente computer, con algoritmi che, in modo logico, tecnologico e preimpostato, erano in grado di risolvergli ogni problema e di riportarlo sulla rotta di Itaca? Forse la stessa fine fatta dal protagonista di “2001, odissea nello spazio” – racconto che, non a caso, fin dal titolo, proprio al mito di Ulisse fa riferimento – un uomo costretto, alla fine, a distruggere quel suo potente computer, per poter salvare la propria esistenza.
È questa la partita che il Covid sembra oggi aver messo in campo. Una partita ben più ampia e decisiva della già difficile lotta contro un virus. Una partita che Harari aveva già preconizzato, ben prima della pandemia.