In questi anni, grazie all’esplosione dei social, stiamo scoprendo che gli influencer, se si politicizzano, possono disintermediare, scuotendo il proprio esercito del selfie, fino a sensibilizzarlo su certe tematiche.
Il caso emblematico, salito alle cronache in questi giorni è quello di Fedez, capace di prendersi in prestito gli strumenti di cui la politica si è dotata negli ultimi dieci anni. Li ha fatti propri e li ha usati come strumenti per colpire i politici stessi. Ecco perché bisogna stare attenti a questi strani ritorni dell’uguale. Ecco perché, Fedez, deve stare attento a non assumere le fattezze delle sue stesse vittime.
Sembra di stare in un dantesco girone dell’inferno, con i politici che devono espiare le loro macchie del passato attraverso la legge del contrappasso, messi all’angolo dalle stesse armi che un tempo erano in loro dote. Non solo il mezzo (social, quindi disintermediazione) ma anche il linguaggio che è il linguaggio dell’antipolitica (un esercizio retorico, come dice Thompson ne La fine del dibattito pubblico) che tanto utile fu a personaggi come Grillo (che voleva aprire il Parlamento come una scatola di tonno) e Renzi (che voleva rottamare i vecchi politici).
L’antipolitica sancisce il passaggio comunicativo dal government alla governance: l’attenzione non è sul governo, ma sulle politiche intese come decisioni volte a migliorare la vita del popolo, un popolo che – nel canovaccio narrativo dell’antipolitica – è spesso subordinato alle decisioni di grandi elitè infiltrate nel governo centrale.
Tutto questo si traduce, nella vulgata, con rabbia e frustrazione a suon di “Che schifo la politica”. Niente di molto diverso, attenzione, da quello che ha detto Chiara Ferragni (l’altra parte del fenomeno Ferragnez) qualche tempo fa.
Il futuro. In conclusione, non c’è niente da demonizzare in ciò che fa Fedez. Il cantante, oltre che bravissimo nell’usare le logiche mediatiche, come si evince dal fatto che ha letteralmente preso per il naso il sistema giornalistico tutto, ha colmato un vuoto della politica, quello della socializzazione.
I partiti non sono più in grado di fornire le interpretazioni sulle cose del mondo, quella è roba da PCI, DC, PSI e prima Repubblica. I partiti di oggi, al massimo, si fanno portavoce di esigenze immediate e transitorie. E dove non arrivano, arrivano gli influencer. Cosa sia il ddl Zan e perché è importante, ad un giovane italiano di questa epoca, se non glielo dice la politica glielo dice Fedez. E lui o lei accetterà di buon grado, perché non dovrebbe?
Roba da Politica Netflix, come la chiama Lorenzo Pregliasco, ovvero di non politici che si occupano di cose politiche e lo fanno on demand.
Gli influencer diventano, quindi, come delle Advocacy 2.0, ovvero brand capaci di pressare su alcune tematiche specifiche (il ddl Zan, nel caso Fedez). In vista del futuro, però, è chiaro che tutto questo rischia di non bastare. Anzi, potrebbe addirittura diventare pericoloso per via della ipersemplificazione che si adotta alla realtà: una legge non è stata approvata, la politica fa schifo. Come se non esistessero infinite sfumature intermedie.
Bene fare agenda setting su questioni così rilevanti, ma poi serve la ricetta, la formalizzazione, la proposta che porta alla risoluzione dei problemi. Insomma, serve la politica. Ed eccolo il paradosso: la politica farà anche schifo, dicono gli antipolici, ma per cambiare le cose non si può prescindere da essa.
La rabbia che diventa un urlo capace di smuovere le coscienze va bene all’inizio, poi deve trasformarsi in qualcosa di più virtuoso, altrimenti si diventa come loro: come quei politici che dicono, ad altri politici, di essere degli schifosi politici. Altrimenti, tanto vale restare comunisti col rolex: “Tanto vale farsi odiare facendo quello che ami veramente. Perché in fondo il mio ideale è il socialismo reale, quello sempre più social e sempre meno sociale”. Oltre tutto questo c’è di più. Speriamo.