Un uomo intrattiene una relazione extra-coniugale con un’altra donna. Per l’occasione prende in affitto un piccolo immobile all’interno del quale consuma quegli incontri clandestini, consentendo a quella storia di andare avanti mesi e mesi indisturbata. Dagli atti processuali da cui è emersa questa narrazione non è dato sapere se è solo un’avventura oppure una vera storia d’amore parallela, tutto alle spalle dell’ignara moglie, ma tant’è.
Fin qui la pseudo-normalità. Una storia di tradimento come tante. Peccato però che, a differenza di tanti rapporti fedifraghi, in questa vicenda la digitalizzazione ha giocato un ruolo fatale per l’uomo (e disvelatore per la moglie). Quei randez-vous non sarebbero infatti mai venuti alla luce se, una distrazione tecnologica, non avesse giocato un brutto scherzo: un giorno lo smartwatch del marito viene dimenticato sul comodino della stanza da letto e, una volta uscito di casa, come ogni giorno, dal suo smartphone iniziava un’amorosa corrispondenza digitale con l’amante, fatta di messaggi di incontrovertibile significato che – però – stavolta venivano letti (e visti) anche dalla moglie direttamente su quell’orologio ipertecnologico lasciato incautamente sul comodino. Le numerose notifiche, infatti, avevano richiamato le attenzioni della donna, intenta a spolverare la camera.
Grazie proprio alla sincronizzazione tra il telefono dell’uomo e il suo smartwatch, pur non essendo i due dispositivi vicini ma – anzi – a chilometri di distanza, le conversazioni scambiate sul telefonino apparivano in tutta la loro cruda natura anche sull’orologio, a beneficio però stavolta della moglie tradita. “Ma c’è la privacy!” ha invocato l’uomo disperatamente nelle aule del Tribunale di Benevento dove, nel frattempo, si è trasferita la vicenda sottoforma di causa di separazione, e mentre la moglie mostrava al giudice le foto fatte alle schermate dello smartwatch con quei messaggi inequivocabili. Non pago, l’uomo disconosceva formalmente le conversazioni, adducendo a qualche stramberia informatica quelle parole: di certo non erano le sue.
Niente da fare però per i giudici campani: secondo le toghe (Trib. Benevento, sez. I Civile, Sent. 2214/22), infatti, non si può invocare la privacy sulle immagini scattate allo schermo dello smartwatch che, al contrario, fanno piena prova nel giudizio di separazione, e sono utili per addebitare all’uomo ogni colpa. Non vi è differenza, secondo il Tribunale, tra una foto allo schermo di un dispositivo elettronico e l’immagine scattata a due amanti intenti in effusioni, poiché l’elemento caratterizzante di un’immagine è il suo oggetto.
Per quanto riguarda, poi, il disconoscimento della titolarità di quanto digitalmente scritto, secondo i giudici è sì possibile, ma esso deve compiersi con tempestività e chiarezza, oltre che essere sostenuto da prove che dimostrino che la realtà riprodotta non corrisponde a quella dei fatti.
Valigie sul pianerottolo, dunque, se ci si ostina a fidarsi della tecnologia.