Il panorama politico, imprenditoriale, accademico, inclusi i cittadini comuni, plaudono tutti alla designazione di Mario Draghi a presidente incaricato del Consiglio di ministri da indicare.
Data la sua variegata e plurivoca esperienza non c’è nulla da “insegnare” a Supermario. Tuttavia, ognuno ha qualcosa da imparare e tutti qualche sapere da trasmettere. Sulle riforme della P.A., ad esempio, o sulla riforma della giustizia. E non sempre i “migliori” sono i professori universitari, spesso troppo accademici e poco pratici. Non a caso il presidente emerito, Luciano Violante, proprio ieri ha affermato che “i due migliori ministri della giustizia sono stati Martelli e Fassino, nessuno dei due laureati in giurisprudenza”, ma “entrambi affiancati da ottimi consiglieri”.
Ecco il primo punto: un ottimo consigliere, capace e “tecnicamente” preparato, non spaventa il politico capace, che non si sente “insidiato”. Spaventa il politico incapace.
Tornando al punto di partenza, la riforma della giustizia è uno dei punti di ogni Governo ad essere, al tempo stesso, necessaria e temuta. Ha precisato Mario Draghi che metterà le mani nella giustizia civile per renderla più veloce e competitiva. Buone intenzioni, già ascoltate in passato, su argomenti che riguardano tempi, modi, adempimenti della giustizia. Ma mai nessuno che fin qui abbia affrontato il problema innovativamente e in termini di civiltà giuridica: se non si parte ponendo sullo stesso piano costituzionale – e dunque di garanzia – le parti del processo, qualsiasi riforma sarà sempre destinata a non produrre gli effetti voluti.
Sono note le proposte avanzate da tempo dal Consiglio Nazionale Forense, e riprese da associazioni rappresentative, fra cui anche quella degli avvocati pubblici, sul rafforzamento del ruolo dell’avvocato in Costituzione, da attuarsi mediante una modifica o dell’art. 111 o dell’art. 24, in cui inserire la libertà e l’autonomia del professionista e la necessità della difesa tecnica, da rendere paritetiche all’autonomia e libertà del giudice.
In ciò l’Italia, benché culla del diritto, sconta un ritardo notevolissimo sulla protezione dei tutori della legalità e della difesa, sia con riguardo agli altri Paesi europei, sia con riguardo a Paesi extraeuropei (si pensi alla Tunisia, la cui Costituzione prevede all’art. 105, che “La professione di avvocato è libera e indipendente. Essa contribuisce alla realizzazione della giustizia e alla difesa dei diritti e delle libertà” (comma 1) e che “L’avvocato beneficia delle garanzie di legge che ne assicurano la protezione e gli consentono di esercitare le sue funzioni”).
Se a ciò si aggiunge che non si tratterebbe di previsione ex novo quella dell’avvocato in Costituzione, dal momento che la pregnanza dell’attività esercitata dall’avvocato è già riconosciuta con riguardo alla composizione di alcuni organi costituzionali e di rilievo costituzionale, l’assenza di menzione del ruolo nell’ambito del diritto di difesa in giudizio appare quanto mai desueta e tanto più urgente.
Con riguardo al tema in oggetto, l’organo rappresentativo dell’avvocatura ha posto l’accento sull’inserimento di “previsioni concernenti strettamente l’avvocatura”, proponendo l’inserimento in Costituzione di uno o più commi all’art. 111 che preveda/prevedano che “nel processo le parti sono assistite da uno o più avvocati” e circoscriva/circoscrivano a casi straordinari e limitati (“tassativamente previsti dalla legge”), la possibilità di prescindere dall’assistenza dell’avvocato, se ciò non pregiudichi “l’effettività della tutela giurisdizionale”.
Il punto focale sta nella specificazione delle modalità d’esercizio della professione, che deve essere necessariamente svolta “in posizione di libertà e di indipendenza, nel rispetto delle norme di deontologia forense”.
Le proposte del CNF sono, in definitiva, dirette a riconoscere e rafforzare il ruolo pubblicistico svolto dell’avvocatura, nel rispetto, tuttavia, della “natura libera della professione forense”.
Per “natura libera della professione forense” deve ovviamente intendersi la libertà intellettuale dell’avvocato, diretta e funzionale ad assicurare, in posizione di indipendenza dai pubblici poteri, l’effettività del diritto di difesa della persona privata o pubblica e l’interesse alla corretta amministrazione della giustizia.
Questa della posizione di “indipendenza dai pubblici poteri” finalizzata a garantire l’effettività del diritto di difesa e il corretto andamento della giustizia, si connette strettamente all’autonomia, all’assenza di conflitti di interesse, al segreto professionale, tutti valori fondamentali nelle professioni legali che rappresentano posizioni di pubblico interesse, e come tali protetti e tutelati in ambito sovranazionale (art. 6 Convenzione EDU, Carta di Nizza, Corte di Giustizia UE, ecc.), prima ancora che dalla legge forense. Ma si collega altrettanto strettamente alla (già tutelata) terzietà del giudice, poiché tale valore è garantito solo se sussiste anche l’autonomia dell’avvocato, affinché la parità di tutte le parti nel processo sia attuata, mediante un esplicito riconoscimento costituzionale del ruolo dell’avvocatura, essendosi rivelati deboli i riferimenti impliciti di cui all’art. 24 e le previsioni di composizione degli organi costituzionali.
Su questo percorso consiglierei a Mario Draghi di essere coraggioso e di partire da questa tessera mancante del mosaico “giustizia”, se vuole riformare in senso reale ed utile un settore nevralgico e sofferente come questo, affinché l’“effettività della tutela dei diritti” e l’“inviolabilità del diritto di difesa”, procedano inscindibilmente accanto alla “posizione” di “libertà, autonomia e indipendenza” nella quale l’avvocato “esercita la propria attività professionale” e il giudice “amministra la giustizia”, in posizione di “parità tra le parti” nel processo.
Tutelare l’avvocato vuol dire tutelare l’interesse generale a che la giustizia funzioni: è un valore di civiltà giuridica. E’ un valore per l’intera collettività.