Sempre più persone guardano alla “economia collaborativa”. La utilizzano soprattutto i più giovani. Mancano però norme comuni
Panta Rei, diceva il filosofo Eraclito riferendosi alla legge inesorabile del mutamento cui è soggetto l’uomo. Non aveva sbagliato Eraclito.
Il mondo cambia, l’Italia cambia, le persone cambiano. Scopriamo infatti che negli ultimi anni il mito della “proprietà” (soprattutto quella immobiliare per quel che riguarda il nostro Paese) sta piano piano perdendo terreno.
Al suo posto, soprattutto tra i più giovani, sta ormai prendendo piede l’”economia collaborativa” (la sharing economy direbbero i più colti).
Quello che accade, semplificando, è un pò questo: un consumatore, interessato ad un certo servizio, accede alla piattaforma di riferimento; la piattaforma lo mette in contatto con un utente che è in grado di offrire al consumatore il servizio che sta cercando.
Risultato: il consumatore ottiene quello che cerca ad un prezzo competitivo, la piattaforma percepisce una commissione fissa per la sua “intermediazione”, chi offre il servizio guadagna la sua quota.
Questa formula convince. Il 15% dei cittadini europei, secondo i dati più recenti, hanno infatti utilizzato piattaforme collaborative (AirBnB, Deliveroo, Blablacar) portando le transazioni effettuate attraverso queste stesse piattaforme a quasi 30 milioni di euro nel 2015, quasi il doppio dell’anno precedente.
Il fenomeno ha visto tra i maggiori utilizzatori i cittadini tra i 25-39 anni (27%), seguiti dai cittadini di età compresa tra i 40 e i 54 anni.
Per quanto riguarda l’utilizzo in base alla Nazione, la Francia è il Paese europeo con il maggior numero di utilizzatori. Oltralpe il 36% dei cittadini ha usufruito nell’ultimo anno dei servizi messi a disposizione dalle piattaforme. L’Italia è nella top ten dei Paesi dove la sharing economy ha riscosso più successo: sono il 17% dei cittadini ad aver utilizzato i servizi.
Guardando invece ai settori, tra i più popolari ci sono quelli dell’alloggio, dei trasporti, il crowdfunding e prestiti e il mercato del lavoro online per posizioni specializzate e non (ad es. consegne e servizi, consulenza, ecc…).
Secondo una indagine della Coldiretti, presentata nel mese di ottobre, il 19% degli italiani ha sperimentato il coworking mettendo in comune spazi di lavoro con altre persone che svolgono mestieri diversi, mentre per dormire c’è un gruppetto di avventurosi (5%) che ha ospitato sconosciuti sul divano di casa oppure ha dormito gratis su quelli altrui. Nell’ambito poi del car sharing, il 19% degli italiani nell’ultimo anno ha deciso di utilizzare i veicoli a noleggio per i piccoli spostamenti in città o anche di condividere l’auto con altre persone per lunghi tragitti per dividere i costi di viaggio.
Chi guadagna, chi risparmia e tutti sono felici e contenti e il fenomeno cresce e si sviluppa.
Si, ma come ogni novità, anche questa non è esente da criticità.
Anzitutto da parte dei “vecchi” fornitori dei medesimi servizi offerti dalla sharing economy che chiedono di porre l’accento sulla “leale concorrenza”. Cioè una richiesta di normazione (con regole uguali per tutti o quasi) del settore.
L’altro punto “dolente” è invece quello dei diritti degli “sharing worker” che devono essere protetti e devono beneficiare di giuste condizioni di lavoro.
Il Parlamento italiano aveva iniziato ad occuparsene negli anni scorsi con una serie di proposte di legge depositate, ma mai esaminate.
Se ne è poi riparlato, ma senza approfondire.
In attesa del Parlamento, però, molti enti locali hanno provato a fare da soli. Il Lazio si è visto respingere dal Tar una norma sull’home sharing che introduceva paletti di metratura alla condivisione. La legge toscana è stata bocciata dalla Consulta, la Lombardia ha avuto più successo. Ma il risultato è una Babele di regole, una per Regione, un rebus per attori e utenti della sharing.
E il rischio è che tutto rimanga come prima, senza mutare.