Se la pandemia ha già cambiato quasi ogni settore della nostra vita sociale, perché non dovrebbe cambiare anche i nostri rapporti con la Pubblica amministrazione? Nessuno sembra chiedersi qual è stato o quale sarà l’effetto di questo anno sconvolgente sui servizi offerti al cittadino da un apparato che già prima non brillava per efficienza. Non ci sono studi o statistiche né previsioni, ma anche su questo, a saper guardare, l’andamento del Covid ha qualcosa da dirci. E non sono buone notizie.
Quando il presidente del Consiglio Mario Draghi ha ipotizzato di lasciare le scuole aperte fino a fine giugno per recuperare il tempo perduto a causa del Covid (e molti insegnanti hanno risposto, piccati, che di tempo non se n’è perso e che la didattica a distanza funziona benissimo) mi è tornato in mente un fatto personale: a giugno dell’anno scorso mio figlio ha affrontato l’esame di maturità classica quasi senza seguire lezioni di italiano, perché il professore, poco a suo agio con le nuove tecnologie, non spiegava online durante il lock down.
E la scuola, secondo la giustificazione data dagli altri docenti ai ragazzi, «non può costringere nessuno».
Ora che mio figlio frequenta l’università deve vedersela con il problema opposto: essendo al primo anno avrebbe il diritto di seguire le lezioni in presenza, ma la maggior parte dei corsi sono invece a distanza (pur essendoci la possibilità di contingentare gli ingressi), perché i professori preferiscono così e anche l’università, come la scuola, «non può costringere nessuno». Forte di questa massima, uno dei suoi attuali docenti non si è neppure preso la briga di insegnare qualcosa in diretta, preferendo spedire via mail lezioni già registrate, credo, l’anno scorso.
Non so dire se questa franchigia dei docenti ai vari livelli dipenda da norme legislative, da accordi sindacali blindati o solo da prassi correnti, ma mi pongo la domanda: lo scatto che tutti considerano necessario nell’istruzione in Italia è compatibile con l’impossibilità di pretendere dai docenti prestazioni nelle forme previste, come in qualunque altro luogo di lavoro? Secondo me no. Può essere che sbagli, naturalmente. Ma sarebbe utile che qualcuno dicesse pubblicamente se è giusto continuare così e per quale motivo.
E’ solo un pezzo di un discorso molto più ampio che riguarda tutta l’Amministrazione pubblica.
Per restare su un terreno non troppo lontano, la Biblioteca nazionale centrale di Roma è probabilmente il luogo più importante per chiunque voglia documentarsi su qualunque argomento in Italia. Studenti, ma anche studiosi e ricercatori di qualunque settore. Da quando è iniziata la pandemia la struttura non chiude più alle 18 e 30 ma alle 13 e 30. Immagino che ciò avvenga nel pieno rispetto della legge, ma mi chiedo: che cosa c’entra la riduzione di orario di apertura al pubblico con il virus? Mi lasciano perplesso anche le nuove modalità di consultazione.
Mentre prima i libri potevano essere tenuti in deposito una settimana, ora vanno riconsegnati ogni mattina e poi eventualmente chiesti di nuovo due giorni dopo. L’intervallo, mi è stato spiegato, serve a disinfettarli dopo ogni maneggiamento. Confesso di non vederne la logica. Si teme forse che il lettore prima sparga il virus sul volume senza ammalarsi e poi si contagi con il suo stesso Covid quando lo va a riprendere? E’ un altro mistero.
Passando a un settore completamente diverso, non so quanti abbiano avuto bisogno in questi mesi di mettersi in contatto con l’amministrazione fiscale. Io ci ho provato a maggio dell’anno scorso e ho scoperto che gli uffici erano aperti, per modo di dire, solo il martedì e il giovedì. Ma perché? La pandemia colpisce di più il lunedì, il mercoledì e il venerdì? Nei due giorni rimasti disponibili si snodava all’esterno una fila di centinaia di metri (con i rischi sanitari che si possono immaginare). Composta oltretutto da gente ignara del suo destino, perché la sala d’attesa, dove di solito si ricevevano informazioni, era ovviamente chiusa.
L’unico a cui fare qualche domanda su tempi e modalità dei servizi era l’addetto esterno alla vigilanza, con tanto di pistola nella fondina.
Chi invece volesse provare a svolgere una pratica fiscale online, scoprirebbe che molti uffici non hanno neppure un indirizzo di posta elettronica certificata. Non è la digitalizzazione la migliore risposta alla pandemia? E in un anno di tempo nessuno ha pensato di migliorare il relativo canale di accesso? A proposito di digitalizzazione, il Comune di Roma non consente più da qualche tempo, per ragioni inspiegate, di pagare la Tari con un bonifico bancario. Per saperne di più ho attivato una richiesta al numero verde capitolino. Sono stato richiamato solo dopo due mesi da un ragazzo che mi ha suggerito di andare a pagare alla posta o dal tabaccaio (2,5 euro a bollettino). Oppure «con il sistema C-bill», ma vattelappesca come funziona.
Sono solo le cose che posso raccontare per averle toccate con mano, ma immagino che ognuno abbia il suo personale museo degli orrori. Non ci vuole molto a immaginare che cosa succeda con la richiesta di una licenza o l’avvio di una pratica al Catasto, che già prima della pandemia rappresentavano colli di bottiglia per avviare qualunque attività. Ci saranno sicuramente eccezioni virtuose, ma nel complesso mi sento di dire che la Pubblica amministrazione non sta dando una gran mano di fronte alle gravissime difficoltà di questi mesi. Anzi. In qualche che caso sorge il dubbio che ci si faccia scudo della pandemia per ridurre l’attività. Viene in mente l’invito a vedere in un problema un’opportunità che ha fatto la fortuna di tanti libri americani su come avere successo nella vita. Solo che qui l’opportunità sembra essere quella di tenere i cittadini lontani dai servizi cui avrebbero diritto. Ne vogliamo parlare?