Il Ministro dell’Economia, armato di pazienza e dedizione, sta schivando da settimane le “naturali” cannonate dell’opposizione ma anche le altrettanto consuete bordate di fuoco amico della sua maggioranza parlamentare, senza dimenticare lezioni di economia di ogni ordine e grado
«L’appello è solo uno: stupiteci». Così Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda aveva sintetizzato settimana scorsa il pensiero degli industriali italiani, dando un messaggio diretto al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al suo esecutivo.
Discontinuità rispetto al precedente governo e più “coraggio” nel redigere una manovra dall’impronta espansiva.
Un monito recepito prima di subito ma, si sa, la fretta è come si suole dire cattiva consigliera e l’invito a dare risposte concrete a imprese e famiglie e più in generale a rilanciare un’economia nuovamente a un passo dal baratro della recessione è stato interpretato nei modi più disparati.
Tra le fila del governo – che ha ormai assunto le forme di un pentapartito 4.0. – il tentativo di stupire richiesto dall’industria si è declinato per lo più in pièce teatrali con attori vecchi e nuovi, alcuni tornati alla ribalta e altri timorosi di uscire troppo in fretta dal proscenio.
Proposte, poche. Scaramucce, tante. Dubbi sulle coperture per la “finanziaria”, innumerevoli.
Eppure qualcuno, che non solo ha recepito l’invito degli industriali e più in generale delle parti sociali, ma che si sente pervaso da un senso di estrema responsabilità in ogni dichiarazione, c’è. Si tratta del primo titolare del Mef “non tecnico” da quasi un decennio, ovvero Roberto Gualtieri, “richiamato” dalle stanze più civili del Parlamento europeo a quelle dei bottoni dell’economia italiana.
Il ministro dell’Economia, armato di pazienza e dedizione, sta schivando da settimane le “naturali” cannonate dell’opposizione ma anche le altrettanto consuete bordate di fuoco amico della sua maggioranza parlamentare, senza dimenticare lezioni di economia di ogni ordine e grado; dagli economisti più accreditati a ragionieri di fantozziana memoria volenterosi di redigere il bilancio della settima economia mondiale.
Un copione che il capo del Mef mette in scena, ormai da qualche tempo, con apparente nonchalance; stessa cifra che ha adottato negli scorsi giorni in Parlamento per illustrare i punti cardine dell’imminente Legge di Bilancio.
Le critiche piovute da ogni dove non hanno scalfito le idee – poche ma chiare, quanto le risorse a disposizione per la manovra – del Ministro.
Tra queste spiccano gli incentivi alle famiglie, con l’armonizzazione dei benefit esistenti in un assegno unico da 240 euro, inglobando probabilmente il bonus Renzi, anche perché il basso tasso di natalità italico e l’invecchiamento demografico sono dati oggettivi. Ma anche la lotta serrata all’evasione fiscale, insistendo sul sistema bonus/malus – i primi per i pagamenti elettronici, i secondi per i contanti – sul modello già collaudato in Portogallo che ha dato i suoi frutti, sostiene Pereira. E come dimenticarsi del taglio del cuneo fiscale, un po’ striminzito con solo 2,7 miliardi di euro per il primo anno ma destinato già a raddoppiare l’anno successivo.
La riforma dell’Irpef è un po’ come Roma: non si può fare in un giorno, si sa.
E infine l’Iva, con le clausole di salvaguardia da non far scattare e l’impegno di oltre 23 miliardi – praticamente il 70% della manovra stessa – per sterilizzare gli aumenti.
Su quest’ultimo punto Gualtieri, pur sapendo di muoversi in un campo minato, ha parlato a più riprese di rimodulazione. In forma limitata, a gettito invariato, ma pur sempre rimodulazione delle aliquote, con una riduzione dell’Iva sui beni di prima necessità e un aumento delle stesse sui beni di lusso, verso un «sistema di aliquote più razionali capaci di rendere il meccanismo più equo».
Sì perché Gualtieri non è solo il primo politico al Mef da tempo, ma è anche un uomo di sinistra, che in via XX Settembre non si vedeva da lustri e lustri, se escludiamo le passioni giovanili di Carlo Azeglio Ciampi.
Gualtieri, che di nome fa Roberto ma si potrebbe abbreviare in Robin e non stonerebbe sostituire il cognome in Hood, è per l’appunto un uomo legato ai concetti e ai valori della sinistra del Novecento, fatti di redistribuzione delle ricchezze e di equità sociale. Ma a dispetto del secolo scorso, in questa singolare contemporaneità, un uomo di sinistra che ricopre ruoli di governo non deve più guardare “soltanto” alle fasce più deboli della popolazione; agli incapienti, inoccupati e disoccupati, o quant’altro la sventura e un Sistema Paese spesso troppo approssimativo è stato in grado di generare.
A un uomo di sinistra con incarichi di governo tocca gettare un’occhiata anche a quel ceto – che forse una volta definiva “piccola borghesia” – che ora è in cerca di autore, a quel 12% dei lavoratori con redditi superiori ai 35mila euro lordi, che da solo paga il 60% dell’Irpef e, di fatto, sostiene il peso di tutte le altre fasce. Una componente esigua, 5 milioni di dichiaranti. Forse un bacino limitato di voti per uno schieramento politico ma risorsa indispensabile per il partito per cui tutti dovrebbero votare: quello dell’economia che ritrova la via della crescita.
Chissà. La manovra è tuttavia ancora aperta. E il Signor Hood, dopotutto, era un galantuomo.