Ben il 14% ha già cambiato opinione rispetto alle politiche. La sfida per i leader è riuscire a confermare i progressi ottenuti
di Luca Tentoni
Secondo un recente sondaggio di Demopolis, solo un intervistato su tre dice di aver votato sempre per lo stesso partito negli ultimi cinque anni. Gli studi sui flussi elettorali confermano che la volatità è molto alta, anche se nel 2018 è stata inferiore a quella delle politiche del 2013.
È dalla crisi del centrodestra prima (2011-2013) e da quella del centrosinistra poi (2013; 2016-2018) che la quota di elettori “infedeli” (e mobili) supera di parecchio la media dei primi sedici anni della Seconda Repubblica. Le oscillazioni dei consensi a Pd, M5S e Lega nel periodo 2013-2018 (con tutti i passaggi intermedi: europee, regionali, amministrative) hanno dimostrato che non si vive più di voto di appartenenza, ma che l’elettore prende in considerazione anche opzioni che fino a pochi anni fa non avrebbe mai valutato.
I sondaggi pubblicati in queste settimane confermano che nulla può essere dato per scontato: confrontando il dato dell’ultima rilevazione Swg (16 luglio) con i risultati ufficiali del 4 marzo si può calcolare intorno al 13-14% la quota di chi ha già cambiato opinione rispetto alle politiche. O, meglio, di chi dichiara di averla cambiata. La differenza è doppiamente importante: in primo luogo, perché si confronta un voto effettivamente espresso (quattro mesi fa) con un’intenzione di voto (cioè una propensione, che forse non si trasformerebbe automaticamente e in ogni caso in una scelta concreta se si votasse oggi); in secondo luogo, perché – in un periodo nel quale la mobilità potenziale è alta – nessuno può contare davvero (nel bene e nel male) sulle percentuali dei sondaggi di questi giorni. Se per pura ipotesi di scuola si sciogliessero le Camere ora o fra un mese, si voterebbe fra fine settembre e fine ottobre. In tal caso, quanti elettori avrebbero modo di cambiare ancora intenzione di voto, sostenendo gli attuali possibili vincitori (bandwagon) o gli altrettanto probabili sconfitti (underdog)?
Nel corso della campagna elettorale per le ultime politiche abbiamo assistito ad una gara, nel centrodestra, fra Forza Italia e la Lega. Il partito di Salvini sembrava in buona posizione, un anno fa, ma alcune rilevazioni indicavano un recupero degli “azzurri” di Berlusconi. Forza Italia, in molti sondaggi pubblicati prima del “black out” pre-elettorale, era al livello della Lega, se non al di sopra. Eppure, a urne aperte, il distacco fra i due soggetti politici è stato nettamente a vantaggio del Carroccio. Al di là del margine di errore e di eventuali sotto o sovrastime, è sempre importante ricordare che i sondaggi si occupano delle intenzioni del momento. Non hanno valore predittivo, anche se certe tendenze si possono delineare e valutare, sia pure con cautela. In un contesto di alta volatilità elettorale, tutto si amplifica. Quindi, leggere oggi che la Lega potrebbe avere il 30% dei voti anziché il 17% delle politiche può essere realistico, ma dedurne che il partito di Salvini otterrà quella quota di voti alle prossime europee – per esempio – è azzardato (potrebbe essere molto superiore o molto inferiore: il Pd passò nel 2014 dal 25% delle politiche al 40%, per poi tornare intorno al 30% già alle amministrative del 2016 e scendere al 18% nel 2018).
Le “intenzioni di voto” non hanno così poco valore, però, da considerarsi assimilabili agli effimeri “like” che si ricevono sui social network: per quanto soggette a variazioni, rappresentano un orientamento in parte emotivo e in parte razionale dell’elettorato. Per questo, il lavoro più difficile per i leader politici, per i partiti e per chi si occupa di marketing elettorale è riuscire a confermare i progressi ottenuti o ad invertire tendenze sfavorevoli. Per certi versi, è molto più facile che nella Prima Repubblica (quando si festeggiava per un guadagno dello 0,5% dei consensi), ma per altri è più complesso, perché oggi quello con l’elettore è il “contratto a tempo determinato” più breve che esista. Molti messaggi politici, per ottenere risultati rapidi e fruttuosi, si basano sulle emozioni, sulle paure reali o su semplici percezioni, però si tratta di operazioni rischiose. Ci sono elementi che possono cambiare il clima: una nuova emozione, una percezione, una buona presenza mediatica, una svolta politica o sociale od economica. Compiere delle scelte solo per il consenso del momento è un grave errore, così come lo è basarsi sulle percezioni fuggevoli dell’opinione pubblica per impostare politiche di lungo respiro. Per vincere le elezioni si può far ricorso al virtuale (“intenzioni” comprese) ma si deve tener sempre presente il reale. Altrimenti, come insegnano le esperienze dell’ultimo decennio, si può passare da vittorie storiche a disfatte irreparabili.