Il PSOE del premier Pedro Sánchez avrà bisogno di più di un alleato per ottenere la maggioranza nelle Cortes (salvo un patto a sorpresa con Ciudadanos). Fino al 26 maggio rimarrà tutto fermo, ma sul futuro incombe la sentenza del processo agli indipendentisti catalani
Non si è discostato molto dalle previsioni della vigilia l’esito delle elezioni generali in Spagna del 28 aprile scorso, le terze per il Paese dopo i comizi di dicembre 2015 e giugno 2016.
In un panorama politico segnato dal passaggio ormai definitivo al multipartitismo e dalla presenza di due blocchi tra loro contrapposti (Partito Socialista – PSOE e Unidas Podemos sul versante progressista, Partito Popolare – PP, Ciudadanos e Vox sul fronte conservatore), era inevitabile che nessuna forza avrebbe ottenuto da sola la maggioranza al Congresso dei Deputati di Madrid e che la nascita di un nuovo Governo sarebbe passata esclusivamente dal raggiungimento di un’intesa tra più attori.
A fronte di un sostanziale pareggio in termini di voti nazionali tra le sinistre e le destre (i due poli hanno ottenuto rispettivamente 11,2 e 11,1 milioni di consensi), è stato un mix tra le caratteristiche del proporzionale iberico e la mobilitazione dell’elettorato progressista in chiave anti Vox a far emergere come ‘vincitore dimezzato’ il PSOE del premier uscente Pedro Sánchez, che potrà contare su 123 seggi su 350 totali nel nuovo Congresso.
La seconda lista più votata è stata il PP del giovane leader Pablo Casado, che con i suoi 66 seggi (71 in meno della scorsa Legislatura, frutto della perdita di 3,5 milioni di voti) ha fatto segnare il peggior risultato di sempre del partito egemone del centrodestra spagnolo, fondato 30 anni fa. Come risulta evidente, il Partito Popolare è rimasto vittima di un ‘effetto tenaglia’ determinato dalla concorrenza dei liberali di Ciudadanos e degli ultranazionalisti di Vox, i quali hanno simultaneamente esposto la formazione a una perdita di consensi tanto tra i ceti moderati quanto nelle fasce di elettorato più conservatrici.
Sul gradino più basso del podio si è per l’appunto collocato Ciudadanos, partito guidato dal catalano antiseparatista Albert Rivera, che per quanto abbia migliorato sensibilmente i risultati delle votazioni del 2016 (passando da 32 a 57 seggi e fermandosi a 220 mila voti da un clamoroso sorpasso ai popolari) ha tuttavia fallito l’obiettivo di estromettere Sánchez dalla guida dell’Esecutivo, per il cui raggiungimento Rivera aveva annunciato fin da febbraio che a urne chiuse non avrebbe per nessun motivo negoziato accordi con i socialisti, accusati dai liberali di voler mantenere il potere anche a costo di appoggiarsi alle forze indipendentiste di Barcellona e dei Paesi Baschi.
A completare il quadro delle Cortes, sulle frange più estreme dell’arco parlamentare, figurano i 42 seggi di Unidas Podemos e i 24 rappresentanti su cui potrà contare la destra radicale di Santiago Abascal. Anche per la sinistra populista di Pablo Iglesias la notte del 28 aprile non ha portato buone notizie (nel 2016 il partito degli Indignados aveva conquistato 71 deputati e 5 milioni di consensi, a fronte dei 3,7 milioni di oggi), mentre l’ingresso di Vox nel Congresso, per quanto rappresenti un esordio assoluto per il sistema democratico postfranchista in essere dal 1978, non ha acquisito i contorni della ‘marea nera’ annunciata da alcuni sondaggi della vigilia, che al contrario come accennato poc’anzi hanno giocato un ruolo cruciale nel favorire l’afflusso degli elettori avversari ai seggi.
Fin dalle prime ore successive allo scrutinio Pedro Sánchez ha annunciato la sua intenzione di continuare a occupare il Palazzo della Moncloa, residenza del Presidente del Gobierno spagnolo, ma il compito da cui è atteso risulta tutt’altro che agevole. Oltre alle menzionate difficoltà numeriche – tali da far sì che al PSOE, per raggiungere i 176 sì necessari per poter contare su una maggioranza nelle Cortes, occorrano l’appoggio sia di Unidas Podemos che di alcune tra le formazioni nazionaliste catalane, basche e canarie – tra Sánchez e Iglesias sono emerse diversità di vedute su un’ipotetica alleanza ancor prima che inizino le discussioni tra i loro partiti. Difatti, mentre il premier socialista vorrebbe limitarsi a intese di programma, il leader di Podemos ritiene irrinunciabile la nascita di un Esecutivo di coalizione.
Alcune novità potrebbero emergere dai colloqui che Pedro Sánchez terrà tra oggi e domani alla Moncloa con Pablo Casado, Albert Rivera e lo stesso Pablo Iglesias (convocati in ordine di consensi ricevuti), ma nella sostanza poco o nulla è destinato a muoversi fino al 26 maggio, quando la Spagna tornerà alle urne per la concomitanza tra votazioni Europee, Regionali e Comunali. Quello che a Madrid è stato ribattezzato come il super domingo electoral sarà un vero e proprio secondo tempo del 28 aprile, in seguito al quale il rebus governabilità potrebbe complicarsi definitivamente o risolversi con formule impreviste (non è un mistero che gli industriali iberici propendano per un patto tra il Partito Socialista e Ciudadanos).
In ogni caso, succeda quel che succeda nei prossimi mesi, non va dimenticato che su ogni fragile equilibrio che si venga a creare nel Congresso dei Deputati incomberà la spada di Damocle del processo ai leader indipendentisti catalani in corso presso la Corte Suprema, e che dovrebbe arrivare a sentenza negli ultimi mesi dell’anno, con conseguenze imprevedibili in primis sul piano delle tensioni sociali.