Il socialista (e premier uscente) Pedro Sánchez non ha ottenuto la fiducia delle Cortes. Se entro il 23 settembre non nascerà un Esecutivo, il 10 novembre gli elettori dovranno tornare ai seggi, come accaduto nel 2016. Tra i partiti nazionali nessuno è esente da responsabilità per l’attuale fase di stallo
Nulla di fatto per la nascita di un Governo in Spagna, dove al contrario inizia ad acquisire forza lo spettro di una ripetizione delle elezioni generali in autunno, sul modello di quanto avvenuto nel 2016, quando i cittadini iberici furono richiamati alle urne a 6 mesi di distanza dai comizi del dicembre 2015.
A distanza di tre mesi dal voto del 28 aprile, il leader del Partito Socialista – PSOE e premier uscente Pedro Sánchez non è infatti stato in grado di ottenere la fiducia del Congreso de los Diputados di Madrid, dove la sua formazione politica può attualmente contare su soli 123 seggi sui 350 totali, malgrado rappresenti di gran lunga il Gruppo più numeroso delle Cortes.
Tanto la sessione parlamentare di martedì 23 quanto quella di giovedì 25 luglio si sono risolte in un nulla di fatto (Sánchez ha mancato sia l’obiettivo della maggioranza assoluta che quello della maggioranza relativa dell’Aula), e pertanto è iniziato il conto alla rovescia di 60 giorni stabilito dalla Costituzione spagnola: se entro il 23 settembre nessun candidato riuscirà a raccogliere i consensi necessari per la nascita di un Esecutivo il Congreso verrà sciolto e le urne elettorali torneranno ad aprirsi il prossimo 10 novembre.
Vari sono i fattori che hanno condotto a una nuova sostanziale paralisi politica, ormai familiare in Spagna da quando il tradizionale bipartitismo fondato sul dualismo tra PSOE di centrosinistra e Partito Popolare – PP di centrodestra ha lasciato spazio prima a un sistema multipartitico e, infine, a una contrapposizione di fatto tra due blocchi: il fronte progressista composto da PSOE e Unidas Podemos (movimento di sinistra populista fondato da Pablo Iglesias sulle ceneri delle proteste contro l’austerità post crisi economica) e il campo conservatore formato dal PP, dai liberali antinazionalisti di Ciudadanos e dalla destra radicale di Vox.
In primo luogo, non ha aiutato che a distanza di un mese dalle elezioni generali si siano svolte le votazioni per il rinnovo della delegazione iberica nel Parlamento europeo e della quasi totalità delle Regioni e dei Comuni. Fino al 26 maggio le interlocuzioni tra le forze politiche sul piano nazionale sono rimaste pressoché ferme, e anche in seguito il vincitore del 28 aprile Pedro Sánchez, malgrado avesse ricevuto a inizio giugno l’incarico di formare il Governo dal Re Felipe VI, ha ritenuto di non accelerare i tempi, decidendo di presentarsi al cospetto delle Cortes solo nella seconda metà di luglio e facendo entrare solo in extremis nel vivo la propria strategia per superare l’ostacolo dell’esame parlamentare.
Strategia, che in fin dei conti si è rivelata la causa principale del fallimento di Sánchez, dal momento che la scelta di puntare su un Esecutivo marcatamente di sinistra in tandem con Unidas Podemos è apparsa fin da subito rischiosa, a causa della forte determinazione del movimento di Iglesias (costretto dai socialisti a rinunciare alle proprie ambizioni da vicepremier) a entrare con un ruolo di primo piano nel Consiglio dei Ministri, manifestatasi nell’anteporre la richiesta di guidare Ministeri di peso a ogni discussione programmatica. Nella settimana precedente le sedute delle Cortes del 23 e 25 luglio si è addirittura assistito a una escalation di proposte e controfferte negoziali avanzate con toni da ultimatum, persino a ridosso delle votazioni del Congreso de los Diputados, probabilmente più per attribuire alla controparte il naufragio delle trattative che non per arrivare alla definizione di un accordo politico che potesse far partire la Legislatura.
Tuttavia, anche le formazioni di centrodestra non possono dirsi esenti da responsabilità, poiché dopo aver rifiutato di non intralciare il mandato del premier uscente optando per l’astensione e denunciato con toni accesi l’arrendevolezza di Pedro Sánchez nei confronti degli indipendentisti catalani e dei nazionalisti baschi (i cui voti sarebbero fondamentali per la buona riuscita di un patto PSOE-Unidas Podemos, che insieme non sono autosufficienti in Parlamento) non hanno ritenuto di offrire al leader socialista una soluzione alternativa, come se per paradosso si augurassero il compimento dello scenario da loro stessi temuto per poterlo denunciare nei prossimi anni dai banchi dell’opposizione. Ciò vale in particolar modo per PP e Ciudadanos, le cui famiglie europee di riferimento (rispettivamente, popolari e liberaldemocratici) a Bruxelles hanno consentito con i socialdemocratici la designazione di Ursula von der Leyen a presidente della Commissione Ue.
A questo punto, le discussioni tra i partiti dovranno ripartire da zero, per quanto l’incombente scadenza del 23 settembre e gli accesi scambi polemici tra i leader rendano la missione tutt’altro che agevole. Per il momento il Re non è intenzionato a condurre una nuova tornata di consultazioni, al fine di favorire una ripresa spontanea delle interlocuzioni tra le formazioni politiche nazionali. Ciò nonostante, l’impressione è quella che ognuno degli attori sulla scena sia convinto che una ripetizione delle elezioni possa danneggiare più gli altri movimenti che non il proprio, sensazione che se suffragata dagli eventi renderebbe pressoché inevitabile una nuova campagna in vista del 10 novembre.
Non vanno però sottovalutate la stanchezza e la delusione nei confronti della politica presenti in larghe fasce dell’elettorato spagnolo, acuite dall’assenza negli ultimi anni di politiche statali di ampio respiro, dovuta per l’appunto ai veti incrociati che ormai da oltre tre anni tengono in sospeso il Parlamento. Stati d’animo, che potrebbero fare sì che l’eventuale ritorno ai seggi degli elettori iberici riservi sorprese ora imprevedibili. Senza dimenticare, poi, che se la Spagna arrivasse in autunno senza un Esecutivo nella pienezza dei propri poteri rischierebbe di ritrovarsi esposta a shock tanto endogeni quanto esogeni, nel primo caso rappresentati dalla possibile condanna dei politici separatisti catalani processati per il referendum del 1° ottobre 2017 e, nel secondo, da un’uscita traumatica del Regno Unito dall’Unione europea.