I cittadini iberici saranno chiamati alle urne per la quarta volta dal 2015. Fallito ogni tentativo di accordo tra i partiti, lo stallo politico rischia di diventare crisi di sistema. Il malumore dell’elettorato rende imprevedibili i risultati, e all’orizzonte incombono la recessione nell’Eurozona e la sentenza per i leader indipendentisti catalani
È trascorso invano il conto alla rovescia per la formazione del Governo che si era aperto in Spagna il 23 luglio, quando il segretario del Partito Socialista – PSOE e premier uscente Pedro Sánchez non era stato in grado di ottenere la fiducia del Congreso de los Diputados di Madrid.
Con alcuni giorni di anticipo rispetto alla data ufficiale di scioglimento delle Cortes, prevista per il 23 settembre, il Re Felipe VI dopo una tornata di consultazioni svolta lunedì 16 e martedì 17 settembre è stato infatti costretto a prendere atto dell’assenza di un candidato in grado di ricevere il sostegno della maggioranza dei Gruppi parlamentari, annunciando implicitamente il ritorno alle urne dei cittadini spagnoli per il prossimo 10 novembre.
Si tratterà delle quarte elezioni generali dal 2015 e delle seconde nell’arco di poco più di 6 mesi, a testimonianza che la prolungata fase di stallo politico che il Paese iberico sta conoscendo negli ultimi anni, in seguito al passaggio dalla tradizionale alternanza nell’Esecutivo tra PSOE e Partito Popolare – PP a un sistema multipartitico, rischia di trasformarsi in una crisi di sistema a tutti gli effetti.
Sebbene non si possa imputare alla Costituzione del 1978 (frutto del consenso sul quale si è basato il ritorno alla democrazia dopo i 40 anni di dittatura franchista) la responsabilità di non aver previsto i cambiamenti che la crisi economica e la disaffezione per gli scandali di corruzione della classe dirigente avrebbero innescato nella società spagnola, non si può tuttavia escludere che i partiti nel prossimo futuro prendano la scorciatoia della riforma delle regole costituzionali in merito alla formazione del Governo, invece di rendere conto agli elettori del perché non siano più in grado di raggiungere quei compromessi indispensabili in ogni sistema parlamentare degno di tale nome.
A partire dal 28 aprile, data delle elezioni che hanno visto i socialisti ottenere una ‘vittoria dimezzata’, ognuno dei principali leader politici di Madrid non ha fatto altro che rimanere fermo sulle proprie posizioni, preoccupandosi negli ultimi 5 mesi soltanto di non apparire agli occhi dell’opinione pubblica come il responsabile della probabile, e adesso confermata, riapertura dei seggi in autunno.
In primo luogo, sul banco degli imputati non può non salire Pedro Sánchez, il quale ha indugiato troppo a lungo prima di mettere in campo una strategia volta a ottenere nelle Cortes il sostegno di cui aveva bisogno per rimanere nel Palacio de la Moncloa, residenza dei Primi Ministri spagnoli, salvo poi sedersi al tavolo delle trattative con la sinistra di Unidas Podemos senza dare mai l’impressione di volere davvero l’intesa. Anche in seguito al fallimento di luglio, Sánchez ha trascorso l’intero mese di agosto e la prima settimana di settembre intrattenendo colloqui con esponenti della società civile, nella sua visione indispensabili per la messa a punto di un programma su cui basare l’attività governativa dell’intera Legislatura, ma che nei fatti hanno dato l’impressione di fungere da base di lavoro per il prossimo manifesto elettorale del Partito Socialista.
Anche il resto dei capipartito non può di certo dirsi esente da colpe: Pablo Iglesias di Unidas Podemos è l’altro grande artefice del fallimento delle negoziazioni cui si è assistito in queste settimane, per via della sua ostinazione nel pretendere un Esecutivo di coalizione con il PSOE, mentre il conservatore Pablo Casado del PP e il liberale Albert Rivera di Ciudadanos si sono mantenuti volontariamente al margine di ogni discussione, rifiutandosi entrambi anche solo di astenersi per permettere ai socialisti di sbloccare la situazione, prima di proporre in extremis al premier uscente un accordo fondato su condizioni in fin dei conti pretestuose.
Il profondo malessere che già adesso si inizia a riscontrare tra i cittadini, per via della loro ulteriore chiamata al voto, non permette di fare previsioni attendibili su ciò che potrà accadere il 10 novembre. Al netto di sconvolgimenti, anche in questa occasione nessun partito otterrà la maggioranza dei 350 seggi delle Cortes, e lo scenario più plausibile è quello di una nuova affermazione del Partito Socialista, che in base agli ultimi sondaggi disponibili staccherebbe di molto i concorrenti continuando tuttavia a non essere autosufficiente. I risultati potrebbero però cambiare sensibilmente qualora calasse l’affluenza alle urne rispetto al 28 aprile; in particolar modo, in primavera si era registrata una forte mobilitazione degli elettori progressisti dovuta all’avanzata della destra radicale di Vox, che se tra circa 2 mesi venisse meno potrebbe cambiare le carte in tavola, regalando una spiacevole sorpresa al PSOE e a Unidas Podemos.
In definitiva, la Spagna potrebbe ritrovarsi guidata ancora a lungo da un Governo limitato al disbrigo degli affari correnti (in occasione della precedente ripetizione delle elezioni, nel 2016, solo una rottura interna al Partito Socialista evitò un terzo ritorno ai seggi), in un contesto che si annuncia insidioso tanto sul piano internazionale quanto sul versante interno: dalla recessione in atto nell’Eurozona allo spettro di una hard Brexit, fino alla guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina e, soprattutto, alla sentenza del Tribunale Supremo nei confronti dei leader indipendentisti catalani processati per ribellione, attesa tra ottobre e novembre e che si annuncia esplosiva per il precario equilibrio vigente a Barcellona. Finora gli indicatori economico-sociali hanno nel complesso sorriso agli iberici, anche a dispetto dell’irresponsabilità della politica, ma non è scontato che lo status quo regga ancora a lungo.