I socialisti si confermano primo partito, ma cedono consensi e seggi rispetto ad aprile. Boom dell’ultradestra di Vox, in ripresa i popolari, crollano i centristi di Ciudadanos, arretra Unidas Podemos. La ‘Grande coalizione’ PSOE-PP darebbe stabilità al Paese, ma tattica e assenza di cultura del dialogo rendono pressoché impraticabile questa strada
Pur arrivando primo nelle urne, il premier spagnolo uscente Pedro Sánchez ha perso la scommessa delle elezioni del 10 novembre, rese inevitabili dal fallimento nel dare vita a una maggioranza parlamentare cui si era assistito nei mesi scorsi.
Le quarte votazioni in altrettanti anni nella Penisola iberica (le ultime si erano svolte il 28 aprile) hanno infatti confermato il primato del Partito Socialista – PSOE, che ha tuttavia visto ridursi la sua quota di seggi nel Congresso di Madrid da 123 a 120, con annessa perdita di circa 800 mila voti. Non ha dunque pagato l’azzardo del Primo Ministro e Segretario dei socialisti, che confidava nella logica del ‘voto utile’ da parte dell’elettorato di sinistra per raggiungere o avvicinare il più possibile la soglia magica dei 176 scranni sui 350 totali delle Cortes, necessari per governare in solitaria.
Sebbene il PSOE continui a essere la forza politica imprescindibile per dare vita a un nuovo Esecutivo (quello attuale è in carica per il disbrigo degli affari correnti da febbraio), il quadro politico che emerge dai risultati di domenica è se possibile ancora più instabile di quello scaturito in primavera, dal momento che non solo continuano a non esistere maggioranze omogenee nel Congreso de los Diputados (a livello nazionale i partiti progressisti hanno ottenuto 158 seggi, contro i 150 del fronte conservatore), ma la polarizzazione del sistema e la frattura tra centrosinistra e centrodestra appaiono nettamente aumentate. Questa dinamica è testimoniata in maniera piuttosto evidente dalla sostanziale scomparsa del centro, resa palese dal tonfo dei liberali di Ciudadanos, che avendo perso ben 3,5 milioni di consensi si ritrovano a fare i conti con una delegazione di deputati crollata da 57 a 10 e con l’assenza di un leader, in seguito alle dimissioni annunciate da Albert Rivera.
Non è dunque un caso che la vera vincitrice dell’appuntamento elettorale sia l’ultradestra di Vox, il cui leader Santiago Abascal è stato abile a capitalizzare i disordini di piazza seguiti alla recente sentenza a danno dei leader indipendentisti catalani e lo shock causato, in certi ambienti nazionalisti, dall’esumazione della salma del dittatore Francisco Franco dal mausoleo che si era fatto costruire nei pressi di Madrid. Fino a quest’anno assente nel Parlamento spagnolo, Vox passa da 24 a 52 seggi e ottiene 1 milione di voti in più rispetto ad aprile, risultando addirittura il partito più votato nella regione mediterranea di Murcia e rappresentando in ottica futura una minaccia per la storica egemonia del Partito Popolare – PP sui votanti conservatori. Per quanto in risalita rispetto ai minimi storici fatti registrare in primavera (i popolari passano da 66 a 88 deputati e riconquistano quasi 700 mila consensi), il PP di Pablo Casado sarà probabilmente costretto a inseguire le posizioni di Abascal su temi come l’immigrazione e la gestione della crisi di convivenza in Catalogna per non cedere altro terreno alla destra radicale.
Per completare il quadro delle principali forze dello scacchiere spagnolo va menzionato il risultato insoddisfacente raccolto dalla sinistra populista di Unidas Podemos, artefice con il Partito Socialista del fallimento dei negoziati che aveva innescato il ritorno ai seggi. La confederazione guidata da Pablo Iglesias scende da 42 a 35 seggi e lascia sul terreno poco più di 600 mila consensi, venendo dunque parzialmente punita dai cittadini per l’intransigenza con cui negli ultimi mesi ha rifiutato di sostenere qualunque soluzione governativa che non prevedesse una coalizione con il PSOE, linea che Iglesias e i suoi non sembrano disposti ad abbandonare. L’arretramento di Unidas Podemos non è stato compensato dall’entrata in scena di Más País, formazione lanciata in alcune circoscrizioni elettorali da Íñigo Errejón (nel 2014 fondatore di Podemos) e fermatasi a 3 deputati, insufficienti per formare un Gruppo nelle Cortes.
In definitiva, quello in cui è precipitato il Paese iberico appare sempre di più come uno stallo permanente, dove gli attori sulla scena si muovono in modo frenetico per tornare sempre al punto di partenza. L’ormai conclamata fine del bipartitismo e della mera alternanza tra PSOE e PP al Palacio de la Moncloa (residenza del Primo Ministro) dovrebbe indurre i leader di Madrid a prendere in considerazione l’ipotesi di stringere intese che superino gli steccati tra avversari per dare stabilità e prospettive, ma ciò nonostante si continua a non prendere in considerazione l’unica opzione che assicurerebbe governabilità alla Spagna: la ‘Grande coalizione’ tra socialisti e popolari, che sulla carta disporrebbe di 208 voti nel Congresso. Tuttavia, un mix tra tattica (un accordo di questo tipo lascerebbe l’opposizione nelle mani di Vox e Unidas Podemos) e necessità di definirsi in contrapposizione all’altro rende difficilmente praticabile una simile strada, già esclusa a caldo da entrambi i partiti.
L’unica certezza è che, a differenza di quanto avvenuto dopo i comizi del 28 aprile, in questa circostanza non trascorreranno mesi prima che Pedro Sánchez prenda l’iniziativa, dal momento che l’obiettivo del Partito Socialista è quello di dare vita a un Governo nel pieno dei propri poteri già a dicembre. Al contrario, le voci dell’ultima ora parlano di un preaccordo tra Sánchez e Iglesias per dare vita all’Esecutivo congiunto che non riuscì a vedere la luce prima dell’estate. In attesa degli sviluppi degli eventi dentro e fuori dal Parlamento, senza alcun dubbio se da qui alle prossime settimane nessuno recederà dalle proprie posizioni scongiurare il rischio delle terze elezioni sarà un’impresa.