Il primo a confrontarsi con la questione fu Piero Giarda, presiedendo la Commissione Tecnica per la spesa pubblica dal 1986 al 1995; in seguito, fu il turno di Tommaso Padoa Schioppa, autore di un “Libro verde sulla spesa pubblica” rimasto allo stato cartaceo a causa della caduta del secondo Governo Prodi. A distanza di qualche anno, con l’arrivo dell’Esecutivo dei tecnici (al cui figurava lo stesso Giarda) guidato da Mario Monti, il tema venne affidato alle competenze di Giuliano Amato, Enrico Bondi – sostituito all’inizio del 2013 da Mario Canzio – e Francesco Giavazzi; infine toccò alle larghe intese di Enrico Letta tentare di venire a capo del “problema”, avvalendosi di un funzionario proveniente dal Fondo Monetario Internazionale (Carlo Cottarelli, le cui elaborazioni in materia sono state da poco rese pubbliche). Anche in quest’ultimo caso, tuttavia, il risultato fu lo stesso di sempre: la spending review, o meglio l’obiettivo di razionalizzare e riallocare la spesa pubblica italiana, rimase per lo più un insieme di ragionevoli proposte, spesso scavalcate dal ricorso da parte dei Governi a tagli lineari e ad aggravi della pressione fiscale, a scapito dei cittadini nella loro duplice veste di contribuenti e fruitori di servizi.
Da poche settimane a questa parte, il compito di rendere possibile ciò che negli ultimi anni non lo è stato, ossia garantire maggiore efficienza agli intricati meccanismi delle uscite statali, è nelle mani di Yoram Gutgeld e Roberto Perotti. Saranno infatti il deputato del Pd (nonché ex consulente McKinsey e “storico” consigliere economico di Matteo Renzi) e il docente di Politica Economica presso l’università Bocconi a subentrare a Cottarelli, dall’autunno 2014 tornato ai suoi incarichi di Washington, nel ruolo di Commissari alla riduzione della spesa pubblica. La nomina da parte del premier è arrivata a ridosso del varo del Documento di economia e finanza (previsto, come ogni anno, per il 10 aprile), e proprio dalla prima stesura del Def discussa ieri in Consiglio dei Ministri è apparso chiaro che stavolta alla spending review è legato un capitolo fondamentale della politica economica del Governo, dal momento che dovrà provenire dalla revisione della spesa la gran parte dei 16 miliardi di euro – che saliranno a 23 per il 2017 – necessari a scongiurare gli aumenti delle aliquote Iva e delle accise previsti per il 1° gennaio 2016, in ossequio a quanto previsto dalle “clausole di salvaguardia” previste nelle Leggi di Stabilità varate dagli Esecutivi Monti e Letta.
Gutgeld e Perotti, stando a quanto riportato dalle cronache politico-economiche, avrebbero già individuato delle aree sulle quali concentrare l’opera di efficientamento delle uscite pubbliche, indicando negli incentivi alle imprese (in particolar modo, riconducibili al settore del trasporto pubblico locale), nella revisione del frastagliato sistema dell’assistenza sociale, nell’introduzione di un meccanismo di costi standard in numerosi comparti della PA e nella riduzione del numero delle Società partecipate dagli Enti Locali una serie di prime fonti dalle quali sarebbe possibile recuperare risorse. I prossimi mesi diranno se la “maledizione” italiana della spending review avrà realmente avuto fine; nel frattempo, è essenziale che sia chiaro a tutti che un ulteriore nulla di fatto in tema di riqualificazione della spesa avrebbe serie conseguenze sia dal lato dell’economia interna che sul versante dell’immagine proiettata all’esterno dal Paese. Difatti, l’entrata in vigore delle “clausole di salvaguardia” di cui si accennava in precedenza provocherebbe sì un aumento dell’aliquota Iva ordinaria dal 22 al 24% e di quella ridotta (applicata ai servizi offerti da bar, alberghi e ristoranti e ad alcuni prodotti alimentari) dal 10 al 12%, con conseguenti effetti negativi sul potere d’acquisto della popolazione in un contesto di ripresa, ma anche e soprattutto un danno reputazionale all’Italia, che si dimostrerebbe nuovamente non in grado di autoriformarsi né di rinnovarsi, rivelandosi, di conseguenza, ancora una volta poco attrattiva per gli investitori stranieri .
A ben vedere, dunque, in gioco c’è qualcosa di ben più importante dei rapporti tra il Governo Renzi e l’Anci del sindaco Pd Fassino, argomento sul quale si sta riversando negli ultimi giorni l’attenzione di numerosi commentatori.