“Il voto è un grande rito, che devi rispettar…” Si potrebbe iniziare così – parafrasando una vecchia canzone di Elio e le Storie Tese – per proseguire poi, seguendo il testo di quel brano, con un: “Nessuno al seggio, nessuno che realizza, nessuno bandiera, nessuno fumogena, nessuno si accalca, nessuno di nessuno…”.
Se già il dato dei votanti alle amministrative di ottobre 2021 era stato uno dei più bassi della storia – fin da quando, nel 1912, Giovanni Giolitti introdusse in Italia il suffragio universale – con le suppletive romane del 16 gennaio 2022, indette per eleggere il sostituto al seggio parlamentare lasciato vacante da Roberto Gualtieri, il fondo è stato forse toccato. Solo poco più di un elettore su dieci si è recato alle urne: un segnale molto preoccupante per la tenuta democratica del paese.
Una preoccupazione che dovrebbe essere ancora più forte fra i dirigenti e i candidatiche fanno riferimento allo schieramento di centrodestra, puntualmente battuti alle più recenti elezioni e con un distacco, rispetto al centrosinistra, direttamente proporzionale alla percentuale di astensione: tanto minore è il numero dei votanti, tanto minore è la percentuale ottenuta da Lega, Fratelli d’Italia e dai fedelissimi berlusconiani.
Da parte del centrosinistra c’è invece la consapevolezza di un elettorato più attivo e fedele. I pochi cittadini che continuano a recarsi con regolarità alle urne, sono infatti, in larga misura, proprio degli elettori di centrosinistra. È il cosiddetto zoccolo duro, quello noto fin dai tempi del PCI.
C’è anche da aggiungere che – al di là della retorica filo democratica dei partiti di sinistra – nei fatti, quell’area politica non ama troppo, né ha incoraggiato quasi mai una larga partecipazione popolare al voto, cosciente di poterne venire penalizzata.
È così da tempi assai remoti. Ad esempio, se la riforma Giolitti del 1912 – quella prima citata e che concesse in Italia il suffragio universale, sebbene, si badi bene, con diritto di voto limitato ai soli cittadini maschi – non prese in considerazione la possibilità di dare il voto anche alle donne, ciò non fu dovuto alla cultura maschilista dell’epoca, bensì all’opposizione ferma del Partito Socialista Italiano, che vedeva nel voto femminile un possibile vantaggio concesso ai partiti clericali e conservatori, che tra le donne godevano di largo favore.
Qualche anno prima, ai tempi del re Vittorio Emanuele II, quando a formare il governo fu la sinistra storica di Urbano Rattazzi, di fronte a progetti di legge considerati dal sovrano troppo progressisti, una delle armi di ricatto usate dal re – se non si fossero stemperati gli aspetti troppo innovatori di quelle leggi – fu proprio quella di minacciare la concessione del suffragio universale, ben sapendo che la sinistra avrebbe visto come fumo negli occhi quella ipotesi, ritenendo che il proprio elettorato di riferimento fosse la popolazione più colta e benestante.
A guardare i dati elettorali di questi ultimi tempi, quel modello politico e culturale pare essere tornato di attualità, con quella che viene oggi definita la “sinistra ZTL”, quasi sempre vincente nei quartieri più ricchi e centrali – e difatti il 16 gennaio si è votato a Roma Centro – che risulta meno attrattiva nelle periferie e fra i cittadini meno abbienti o meno istruiti. E se quelle periferie, geografiche o sociali, per un momento, avevano premiato i partiti di destra – o l’originario Movimento 5 Stelle – oggi esse rinunciano del tutto a partecipare alla partita.
Sembrerebbe quasi, analizzando questo andamento, che si stia dunque tornando verso un modello politico di stampo ottocentesco, con la gestione della cosa pubblica limitata a una questione da risolvere all’interno delle élites economiche, senza una vera partecipazione attiva della cittadinanza. Soprattutto senza la partecipazione di chi appartiene alle classi più disagiate, le quali, disertando le urne, sembrano avere scelto di autoeliminarsi dal dibattito politico.
È un modello che, tutto sommato, visto che ha funzionato con efficienza nel corso del diciannovesimo secolo, potrebbe, dunque, essere di nuovo rimesso in auge due secoli dopo. Si tratta di un sistema che sta ancora mantenendo il titolo formale di “democrazia” – cioè “governo di popolo” – senza averne però, fino in fondo, le caratteristiche intrinseche.
Non a caso, anche a livello lessicale, una partecipazione ampia, attiva e popolare alle questioni politiche – essendo ormai malvista e poco tollerata – spesso non viene più definita “democratica” – aggettivo che porterebbe con sé una valenza positiva – preferendo l’uso di parole con un’accezione negativa e un intento squalificante, come ad esempio il termine, oggi molto usato, di “populismo”.
La ricomparsa di un modello politico ottocentesco significa, con ogni probabilità, anche la contemporanea rinuncia a molti degli elementi innovativi comparsi nel corso del ventesimo secolo: dall’ottenimento dei diritti sindacali e civili, alla nascita del welfare e dello stato sociale, alla partecipazione allargata a fette sempre più ampie di popolazione nelle scelte civiche e politiche. Tutte cose entrate in crisi negli ultimi anni, parallelamente alla riduzione della partecipazione popolare al voto.
Oltre a ciò, l’assenza degli elettori dai seggi, è comunque anche un segnale dell’assenza – o perlomeno della latitanza – di un modello politico capace d’intercettare gli umori e i desideri dei più. I cittadini, infatti, stanno silenziosamente bocciando, non recandosi alle urne, quel modello consociativo attualmente vigente, che ha portato alla nascita di un “governo di tutti e di nessuno”, un governo che, in teoria – considerati i partiti che lo sostengono – dovrebbe rappresentare il 90% della popolazione, ma che in realtà rappresenta solo il restante 10%, cioè quello che continua ad andare a votare, mantenendo una dose di fiducia nell’attuale sistema.
Viene dunque bocciato un modello, anche se non se ne propone, da parte di nessuno, né se ne intravede, uno diverso. Manca dunque una prospettiva alternativa che sia diffusamente apprezzata dai cittadini. E questa assenza di una prospettiva politica condivisa dalla maggioranza della popolazione, è un problema che potrebbe portare, prima o poi, a sviluppi inattesi.
Quando un disagio sociale – anche se sotterrano, anche se poco consapevole e comunque sottaciuto – non trova sbocchi nella normale dialettica democratica, la storia ha spesso dimostrato che esso può sfociare in forme di dissenso scomposto, che possono mandare all’aria – a volte anche in modo violento – l’intero assetto della società.
È già successo nel caso di rivolte, di colpi di stato, di rivoluzioni, eventi quasi mai previsti o prevedibili – nessun uomo del settecento, ad esempio, avrebbe immaginato il crollo improvviso dell’ancien régime con lo scoppio della rivoluzione francese, né poi si previde la rivoluzione russa, o la marcia su Roma, o l’avvento di Hitler – eventi che finiscono per avere andamenti non sempre controllabili e che possono travolgere anche chi oggi canta vittoria, poiché avvantaggiato dall’attuale situazione.
Non è detto che questo debba necessariamente accadere anche nel prossimo futuro, ma sarebbe comunque auspicabile attivare, al più presto, nuove forme di coinvolgimento sociale, che tornino a stimolare un’ampia partecipazione dei cittadini alla vita politica, per evitare di creare un clima generalizzato di malessere silenzioso e di frustrazione strisciante. Un clima che è terreno fertile per sviluppi futuri dagli esiti imprevedibili.